Selver si destò sul tempo del mondo il terzo giorno: esile, stordito, affamato, silenzioso. Dopo essersi bagnato nel fiume e avere mangiato, ascoltò Reswan e la donna-capo di Berre e gli altri che erano stati scelti come comandanti. Essi gli riferirono che cosa era successo nel mondo mentre lui sognava.
Quando li ebbe uditi tutti, Selver si guardò intorno, fissandoli, ed essi videro il dio in lui. Nel malessere di disgusto e di paura che aveva fatto seguito alla Notte di Eshsen, alcuni di loro erano giunti a dubitare. I loro sogni erano inquieti e pieni di sangue e di fuoco; erano circondati tutto il giorno da stranieri, gente venuta da ogni luogo esterno alla foresta, centinaia di loro, migliaia, tutti radunati lassù come nibbi sopra una carogna, ciascuno sconosciuto all’altro: e pareva loro che la fine delle cose fosse giunta e nulla fosse mai più destinato a ritornare uguale a prima, o giusto. Ma alla presenza di Selver ricordarono il loro scopo; la loro angoscia si tranquillizzò, e attesero che lui parlasse.
— L’uccisione è finita — disse. — Assicuratevi che ciascuno lo sappia. — Si guardò intorno. — Devo parlare con coloro che sono chiusi nel recinto. Chi li comanda, laggiù?
— Tacchino, Piedipiatti, Occhi Umidi — disse Reswan, l’ex schiavo.
— Tacchino è vivo? Bene. Aiutami ad alzarmi, Greda, ho delle anguille al posto delle ossa…
Dopo essere stato in piedi per qualche tempo, si sentì maggiormente in forze, ed entro un’ora partì per Eshsen, a due ore di cammino da Endtor.
Quando giunsero al recinto, Reswan salì su una scala appoggiata alla parete e urlò nell’inglese rudimentale insegnato agli schiavi: — Dong-a, vieni alla porta, svelto, scat-tare!
Giù nelle stradine, tra le basse capanne di cemento, alcuni degli umani gridarono contro di lui e gli lanciarono pugni di spazzatura. Lui si chinò per evitarli, e attese.
Il vecchio colonnello non uscì, ma Gosse, che essi chiamavano Occhi Umidi, uscì zoppicando da una capanna e rispose a Reswan: — Il colonnello Dongh è malato, non può uscire.
— Malato che tipo?
— Intestino, malattia dell’acqua. Che cosa vuoi?
— Parlare… Padron dio — disse Reswan nella propria lingua, spostando lo sguardo in direzione di Selver — il Tacchino si nasconde, vuoi parlare con Occhi Umidi?
— Va bene.
— Attenti alla porta, voi arcieri!… Alla porta, signor Goss-a, svelto, scat-tare! La porta venne aperta quel tanto di larghezza e di tempo che permisero a Gosse di uscire con un po’ di fatica. Rimase fermo davanti a essa, da solo, fronteggiando il gruppo guidato da Selver. Cercava di non appoggiarsi a una gamba, ferita nella Notte di Eshsen. Indossava un pigiama strappato, sporco di fango e umido di pioggia. I capelli grigiastri gli pendevano in lunghi festoni intorno alle orecchie e sulla fronte. Alto il doppio dei suoi catturatori, si teneva molto rigido, e li fissava con disperazione coraggiosa, irata.
— Che cosa volete?
— Dobbiamo parlare, signor Gosse — disse Selver, che aveva imparato da Lyubov a parlare correttamente. — Io sono Selver dell’Albero di Frassino di Eshreth. Sono l’amico di Lyubov.
— Sì, ti conosco. Che hai da dire?
— Ho da dire che le uccisioni sono finite, se questa può diventare una promessa mantenuta dal tuo popolo e dal mio. Tutti voi potete andarvene in libertà, se siete disposti a raccogliere tutta la vostra gente dei campi di taglialegna di Sornol Meridionale, Kushil e Rieshwel, e farla stare tutta insieme qui. Potete abitare qui dove la foresta è morta, dove voi piantate le vostre erbe da seme. Non ci deve più essere abbattimento di alberi.
Il volto di Gosse si era fatto interessato. — I campi non sono stati attaccati?
— No.
Gosse non disse nulla.
Selver studiò la sua faccia, e dopo qualche tempo riprese a parlare: — Ci sono meno di duemila del vostro popolo che vivono ancora nel mondo, penso. Le vostre donne sono tutte morte. Negli altri campi ci sono ancora armi. E noi siamo più di quanti potreste uccidere.
"Suppongo che lo sappiate, e che per questo non abbiate cercato di farvi portare dei lanciafiamme dalle navi volanti, per uccidere le guardie e poi fuggire. Non vi sarebbe servito a nulla: siamo effettivamente così tanti. Se voi farete insieme con noi la promessa, sarà molto meglio, e poi potrete aspettare senza danni che una delle vostre Grandi Navi venga, e potrete lasciare il mondo. Questo succederà tra tre anni, ritengo."
— Sì, tre anni locali… Come lo sai?
— Be’, gli schiavi hanno orecchie, signor Gosse.
Gosse finalmente lo osservò. Poi distolse lo sguardo, si agitò nervosamente, cercò di mettere comoda la gamba. Guardò nuovamente Selver, distolse nuovamente lo sguardo.
— Avevamo già "promesso" di non fare del male a nessuno del tuo popolo. È questo il motivo per il quale i lavoratori sono stati rimandati a casa. E non è servito a niente, voi non ci avete ascoltato.
— Non era una promessa fatta a noi.
— Come possiamo fare una qualsiasi specie di accordo o trattato con un popolo che non ha governo, non ha autorità centrale?
— Non lo so. Non sono sicuro che voi sappiate che cosa sia una promessa. Quella di cui parlate è stata presto infranta.
— Che cosa intendi dire? Da chi, come?
— A Rieshwel, New Java. Quattordici giorni fa. Una città è stata bruciata, la sua gente uccisa dagli umani del Campo di Rieshwel.
— Di che cosa parli?
— Notizie portate a noi da messaggeri di Rieshwel.
— È una menzogna. Siamo sempre stati in contatto radio con New Java, fino al massacro. Nessuno ha ucciso dei nativi, né laggiù né in alcun altro luogo.
— Voi dite la verità che conoscete — disse Selver. — Io dico la verità che conosco io. Io accetto la vostra ignoranza delle uccisioni di Rieshwel; ma voi dovete accettare la mia parola che sono state fatte. Resta questo punto: la promessa deve essere fatta a noi e insieme con noi, e deve essere mantenuta. Penso che voi desideriate parlare di queste cose con il colonnello Dongh e gli altri.
Gosse fece per rientrare nel recinto, poi si volse indietro e disse con la sua voce profonda, roca: — Chi sei, tu, Selver? Sei stato tu… a organizzare l’attacco? Sei stato tu a guidarli?
— Sì, sono stato io.
— Allora tutto questo sangue ricade sulla tua testa — disse Gosse, e con improvvisa crudeltà: — Anche quello di Lyubov, lo sai. È morto… il tuo "amico Lyubov".
Selver non capì la frase "questo sangue ricade sulla tua testa". Aveva imparato l’omicidio, ma della colpa conosceva poco più del nome. Mentre i suoi occhi incontravano per un istante lo sguardo pallido e offeso di Gosse, provò timore. Un malessere si sollevò in lui, un gelo mortale. Cercò di allontanarlo da sé, chiudendo gli occhi per un momento. Infine disse: — Lyubov è mio amico, e quindi non è morto.
— Voi siete dei bambini — disse Gosse, con odio. — Bambini, selvaggi. Non avete alcun concetto della realtà. Questo non è un sogno, questa è la realtà! Voi avete ucciso Lyubov. Lyubov è morto. Voi avete ucciso le donne… le donne… le avete bruciate vive, le avete ammazzate come animali!
— Avremmo dovuto lasciarle in vita? — disse Selver con una violenza uguale a quella di Gosse, ma piano, con la voce che cantava un poco. — Per riprodurvi come insetti nella carcassa del Mondo? Per schiacciarci? Le abbiamo uccise per sterilizzarvi.
"Io so che cos’è un realista, signor Gosse. Io e Lyubov abbiamo parlato di queste parole. Un realista è un uomo che conosce sia il mondo sia i propri sogni. Voi non siete sani: non c’è un solo uomo su mille, tra voi, che sappia come sognare. Neppure Lyubov, e lui era il migliore di tutti.