"Voi dormite, vi svegliate e dimenticate i vostri sogni, dormite di nuovo e poi vi svegliate di nuovo, e in questo modo passate l’intera vostra vita, e pensate che questa sia l’esistenza, la vita, la realtà! Voi non siete bambini, voi siete uomini adulti, ma insani. Ed è per questo che noi abbiamo dovuto uccidervi, prima che ci faceste diventare pazzi. E ora ritornate pure dentro, a parlare della realtà con gli altri uomini insani. Parlatene a lungo, e bene!"
Le guardie aprirono la porta, minacciando con le lance gli umani che si affollavano dietro di essa; Gosse rientrò nel recinto, e le sue grosse spalle erano curve, come se dovesse ripararsi dalla pioggia.
Selver era molto stanco. La donna-capo di Berre e un’altra donna accorsero da lui e gli camminarono a fianco, mettendosi le sue braccia intorno alle spalle, in modo che non cadesse, neppure se fosse inciampato. La giovane cacciatrice Greda, una cugina del suo Albero, scherzò con lui, e lui le rispose a cuor leggero, ridendo. Il viaggio di ritorno a Endtor parve prolungarsi per giorni interi.
Selver era troppo stanco per mangiare. Bevve un poco di brodo caldo e si stese accanto al Fuoco degli Uomini. Endtor non era una città, ma un semplice accampamento vicino al grande fiume, un luogo di pesca favorito da tutte le città che un tempo erano esistite in quella parte della foresta, prima che giungessero gli umani.
Non c’era una Loggia. Due anelli di pietre nere intorno ai fuochi e una lunga banchina erbosa lungo il fiume, dove tende di cuoio e di vimini intrecciati potevano venire innalzate: questo era Endtor. Il fiume Menend, il più grande corso d’acqua di Sornol, parlava incessantemente nel mondo e nei sogni di Endtor.
C’erano molti vecchi uomini accanto al fuoco, e alcuni di essi gli erano noti fin da Broter e Tuntar e dalla sua città di Eshreth, ora distrutta, altri gli erano ignoti; poteva vedere nei loro occhi e nei loro gesti, e udire dalla loro voce, che erano Grandi Sognatori; un numero di sognatori così grande non si era forse mai riunito in un solo luogo, in precedenza. Mentre era steso in tutta la sua lunghezza, con la testa sollevata sulle mani, fissando il fuoco, disse: — Ho chiamato matti gli umani. Sono io stesso matto?
— Tu non riconosci un tempo dall’altro — disse il vecchio Tubab, gettando una pigna nel fuoco — perché per troppo tempo non hai sognato, né dormendo né nella veglia. Il costo di ciò richiede molto tempo per essere pagato.
— I veleni che prendono gli umani fanno pressappoco lo stesso effetto della mancanza di sonno e di sogno — disse Heben, che era stato schiavo sia alla Centrale sia a Campo Smith. — Gli umani avvelenano se stessi allo scopo di sognare. Ho visto in loro lo sguardo del sognatore, dopo che avevano preso il veleno.
"Ma non potevano chiamare a sé il sogno, né controllarlo, né intesserlo o dargli forma, né cessare di sognare: ne erano sospinti, sopraffatti. Non sapevano affatto che cosa avessero dentro di sé. E la stessa cosa succede a un uomo che non sogna per molti giorni.
"Anche se fosse il più saggio della Loggia, sarebbe ugualmente pazzo, di tanto in tanto, prima o poi, ancora per molto tempo in seguito. Sarebbe spinto, reso schiavo. Non capirebbe se stesso."
Un uomo molto vecchio, che parlava con l’accento del Sornol Meridionale, posò le mani sulla spalla di Selver, lo accarezzò e disse: — Mio caro giovane dio, tu hai bisogno di cantare, questo ti farebbe bene.
— Non posso. Canta tu per me.
Il vecchio cantò; altri si unirono, con le voci acute e sottili, quasi stonate, come il vento che soffia tra le canne acquatiche di Endtor. Cantarono una delle canzoni del frassino, che parlava delle foglie delicate e solcate da robuste nervature che diventano gialle in autunno quando le bacche diventano rosse, e poi una notte il primo gelo le inargenta.
Mentre Selver ascoltava il canto del frassino, Lyubov era sdraiato accanto a lui. Da sdraiato non pareva così mostruosamente alto e grosso di membra. Dietro a lui c’era l’edificio semidiroccato, sventrato dal fuoco, che nereggiava contro le stelle.
— Io sono come te — disse Lyubov, senza guardare Selver, con quella voce di sogno che cerca di rivelare la propria falsità. Il cuore di Selver era appesantito dal dolore per l’amico.
— Ho mal di testa — disse Lyubov, con la propria voce, strofinandosi il dorso del collo come faceva sempre, e mentre così faceva Selver tese la mano per toccarlo, per consolarlo.
Ma Lyubov era d’ombra e di luce dei falò, nel tempo del mondo, e i vecchi cantavano la canzone del frassino, dei piccoli fiori bianchi sui rami neri in primavera, tra le foglie nervate.
Il giorno dopo, gli umani imprigionati nel recinto mandarono a chiamare Selver. Lui giunse a Eshsen nel pomeriggio, e si incontrò con loro all’esterno del recinto, sotto le fronde di una quercia, poiché la gente di Selver si sentiva un poco a disagio sotto il cielo nudo e aperto.
Eshsen era stato un boschetto di querce; quell’albero era il più grande dei pochi che i coloni avessero lasciato in piedi. Stavano sulla lunga discesa dietro il bungalow di Lyubov, una delle sei o sette case che fossero riuscite a superare indenni la notte dell’incendio. Insieme a Selver, sotto la quercia c’erano Reswan, la donna-capo di Berre, Greda di Cadast, e altri che volevano partecipare all’incontro: una dozzina in tutto.
Molti arcieri facevano la guardia, temendo che gli umani avessero con sé delle armi nascoste, ma sedevano dietro cespugli o rovine lasciate dall’incendio, in modo da non dominare la scena con un suggerimento di minaccia.
Insieme con Gosse e con il colonnello Dongh c’erano tre degli umani che venivano chiamati ufficiali e due degli appartenenti al campo dei tagliaboschi: alla vista di uno di loro, Benton, gli ex schiavi trattennero il respiro. Benton aveva l’abitudine di punire i "creechie pigri" castrandoli in pubblico.
Il colonnello aveva un aspetto smagrito; la sua pelle, che normalmente aveva un colore giallo-marrone, ora appariva giallastro-grigia; la sua malattia non era una finzione.
— Ora, la prima cosa è — disse il colonnello, quando si furono tutti messi al loro posto, gli esseri umani in piedi, la gente di Selver accosciata o seduta sul terriccio umido e soffice composto di foglie di quercia — la prima cosa è che io desidero subito avere una definizione operativa di cosa esattamente significano quei vostri termini, e che cosa significano in termini di garantire la sicurezza del personale sotto il mio comando qui.
Seguì un silenzio.
— Voi capite l’inglese, vero, almeno alcuni di voi?
— Sì. Ma non capisco la vostra domanda, signor Dongh.
— Colonnello Dongh, prego!
— Allora voi chiamatemi colonnello Selver, prego!
Una nota di canto s’infilò nella voce di Selver; si alzò in piedi, pronto per la contesa, con le melodie musicali che scorrevano nella sua mente come fiumi.
Ma il vecchio umano si limitò a starsene lì immobile, grosso e pesante, rabbioso, ma senza accettare la sfida.
— Non sono venuto qui per farmi insultare da voi piccoli umanoidi — disse.
Ma le sue labbra tremavano, mentre lo diceva. Era vecchio, e sconcertato, e umiliato. Ogni anticipazione del trionfo si allontanò da Selver. Non c’era più trionfo nel mondo, solo morte. Tornò a sedere.
— Non intendevo insultanti, colonnello Dongh — disse, rassegnato. — Vorreste ripetere la domanda, per favore?
— Desidero udire i vostri termini, e poi udrete i nostri, non c’è altro.
Selver ripeté ciò che aveva detto a Gosse.
Dongh ascoltò con evidente impazienza. — D’accordo. Ora, voi non sapete che noi abbiamo una radio funzionante nel recinto prigione: l’abbiamo già da tre giorni.
Selver lo sapeva benissimo, poiché Reswan aveva immediatamente controllato la natura dell’oggetto lanciato dall’elicottero, per timore che fosse un’arma: le guardie gli avevano riferito che era una radio, e lui aveva lasciato che gli uomini se la tenessero. Selver si limitò ad annuire col capo. — E perciò siamo stati in contatto con i tre campi periferici, i due sulla Terra del Re e quello su New Java, per tutto il tempo, e se avessimo deciso di tentare una sortita e di fuggire da quel recinto prigione, sarebbe stato assai semplice farlo: gli elicotteri ci avrebbero gettato le armi e avrebbero coperto i nostri movimenti con le loro armi di bordo; sarebbe bastato un lanciafiamme a farci uscire dal recinto, e in caso di bisogno gli elicotteri hanno anche bombe capaci di far saltare in aria un’intera zona. Voi non le avete mai viste agire, naturalmente.