— Be’, sei stato a giacere in terra per tutta la notte nel modo che indica che desideri che ti lasciamo vivere; adesso vuoi morire?
Il dolore alla testa e allo stomaco, il suo odio per quell’orribile piccolo mostriciattolo che parlava come Lyubov e che lo aveva alla sua mercé, il dolore e l’odio si combinarono e gli rovesciarono lo stomaco: ebbe un conato e per poco non vomitò. Tremava per il freddo e la nausea. Cercò di afferrarsi al coraggio. All’improvviso fece un passo avanti e sputò in faccia a Selver.
Ci fu una piccola pausa, poi Selver, con una sorta di movimento danzante, sputò addosso a lui. E rise. E non fece alcuna mossa per uccidere Davidson. Davidson si ripulì dalle labbra lo sputo gelido.
— Vedi, capitano Davidson — disse il creechie, con quella sua voce esile e tranquilla che a Davidson faceva girare la testa e lo stomaco — siamo entrambi degli dèi, tu e io. Tu sei un dio insano, e io non sono sicuro di essere sano o no. Ma noi siamo degli dèi.
"Non ci sarà mai più un altro incontro nella foresta, simile all’incontro che si svolge ora tra noi. Noi ci portiamo l’un l’altro il tipo di doni che si portano gli dèi. Tu mi hai fatto un dono, l’uccisione dei propri simili, l’omicidio. Ora, per quanto posso, io ti faccio il dono del mio popolo, che è quello di non uccidere.
"Io penso che ciascuno di noi troverà gravoso da sopportare il dono dell’altro. Comunque, tu dovrai portarlo da solo. La tua gente di Eshsen mi dice che se ti porterò laggiù, dovranno dare un giudizio su di te e ucciderti, la loro legge vuole così. Dunque, se voglio darti la vita, non posso portarti a Eshsen con gli altri prigionieri; e non posso lasciarti a vagare nella foresta, perché fai troppo danno. E così tu sarai trattato come uno di noi che sia diventato matto. Tu sarai condotto a Rendlep, dove nessuno abita più, e lasciato là."
Davidson fissò a occhi sbarrati il creechie, non riuscì a distogliere lo sguardo da lui. Era come se avesse su di lui un potere ipnotico. Non riusciva a sopportarlo. Nessuno aveva alcun potere su di lui. Nessuno poteva ferirlo.
— Avrei dovuto romperti il collo subito, quel giorno che hai provato ad assalirmi — disse, con voce ancora roca e spessa.
— Forse sarebbe stato meglio — rispose Selver. — Ma Lyubov ha evitato che tu lo facessi. Così come ora mi impedisce di ucciderti… Tutte le uccisioni sono ormai finite. E anche l’abbattimento degli alberi. Non ci sono alberi da tagliare su Rendlep.
"Si tratta del posto che voi chiamate Isola Discarica. Il tuo popolo non ha lasciato laggiù alcun albero, e così tu non puoi fare una barca e allontanarti da essa. Non c’è molto che cresca ancora laggiù, e dunque noi dovremo portarti cibo e legna da bruciare.
"Non c’è nulla da uccidere su Rendlep. Né alberi, né persone. Mi pare un posto adatto perché tu ci viva, dato che vuoi vivere. Laggiù potresti imparare come sognare, ma più probabilmente seguirai la tua follia fino alla sua giusta fine, col tempo."
— Uccidimi adesso e piantala con queste tue maledette vanterie.
— Ucciderti? — disse Selver, e i suoi occhi, alzandosi verso quelli di Davidson, parvero brillare, infinitamente chiari e terribili, nella prima luce della foresta. — Io non posso ucciderti, Davidson. Tu sei un dio. Dovrai farlo tu stesso.
Si voltò e si allontanò, leggero e svelto, e dopo pochi passi sparì tra gli alberi grigi.
Un cappio scivolò sulla testa di Davidson e si strinse un poco intorno alla sua gola. Piccole lance si avvicinarono alla sua schiena da ogni lato. I creechie non cercarono di ferirlo. Sarebbe potuto correre via, avrebbe potuto fare un tentativo di fuga, essi non osavano ucciderlo. Le lame erano lucide, a forma di foglia, affilate come rasoi. Il cappio gli tirò leggermente il collo. Lui li seguì dove decisero di condurlo.
8
Lepennon
Selver non vedeva Lyubov da molto tempo. Quel sogno era andato con lui a Rieshwel. Era stato con lui quando aveva parlato per l’ultima volta a Davidson. Poi se ne era andato, e forse ora dormiva nella tomba della morte di Lyubov a Eshsen, poiché non era mai venuto a Selver nella città di Broter in cui lui adesso abitava.
Ma quando la grande nave ritornò, e lui si recò a Eshsen, Lyubov si incontrò laggiù con lui. Era silenzioso e tenue, molto triste, e così l’antico gravoso dolore in Selver si ridestò.
Lyubov rimase con lui, ombra della sua mente, anche quando incontrò gli umani scesi dalla nave. Questi erano persone di potere; erano assai diversi da ogni umano che lui avesse conosciuto, a eccezione del suo amico, ma erano uomini ben più forti di quanto Lyubov fosse mai stato.
Il suo linguaggio umano si era un po’ arrugginito, e dapprima si limitò a lasciarli parlare per la maggior parte del tempo. Quando fu ragionevolmente certo del tipo di persone che erano, mise davanti a loro la pesante scatola che si era portato da Broter.
— Qui dentro c’è il lavoro di Lyubov — disse, faticando a trovare le parole. — Conosceva più cose, su di noi, di quante ne conoscessero gli altri. Imparò la mia lingua e il Linguaggio degli Uomini; noi abbiamo scritto tutto su carta. Un poco capiva il modo in cui noi viviamo e sogniamo. Gli altri non lo capiscono. Io vi darò il suo lavoro, se voi lo porterete nel luogo da lui desiderato.
L’umano alto, dalla pelle bianca, parve molto felice, e ringraziò Selver, dicendo che senza dubbio quelle carte sarebbero state portate dove Lyubov desiderava, e laggiù sarebbero state assai apprezzate.
Questo piacque a Selver. Ma era stato penoso per lui pronunciare a voce alta il nome dell’amico, poiché il volto di Lyubov era ancora amaramente triste quando si rivolse a lui nella propria mente.
Si allontanò un poco dagli umani, e li osservò. Dongh e Gosse e gli altri di Eshsen erano presefiti, insieme con i cinque della nave. I nuovi avevano un aspetto pulito e lucido come ferro nuovo. I vecchi si erano lasciati crescere il pelo sulla faccia, così assomigliavano un poco a dei grossi Athshiani dal pelo nero.
Indossavano ancora abiti, ma gli abiti erano vecchi e non erano puliti. Non erano magri, a eccezione del Vecchio Uomo, che era stato malato a partire dalla Notte di Eshsen; ma tutti avevano un poco l’aspetto di uomini che si sono perduti o che sono pazzi.
L’incontro si svolgeva ai margini della foresta, in quella zona dove per tacito accordo né il popolo della foresta né gli umani avevano costruito abitazioni né si erano accampati negli anni trascorsi fino a quel momento. Selver e i suoi compagni si sedettero all’ombra di un grosso frassino che sorgeva a una certa distanza dai bordi della foresta. Le sue bacche erano soltanto dei piccoli nodi rossi sullo sfondo dei rami, ora come ora, le sue foglie erano lunghe e sottili, labili, verdi per l’estate. La luce, al disotto dell’albero, era morbida, complicata di infinite ombre.
Gli umani si consultavano e andavano e venivano, e infine uno solo di loro si avvicinò al frassino. Era quello dai modi duri, proveniente dalla nave, il comandante.
Si accosciò sulle caviglie accanto a Selver, senza chiedere il permesso ma senza intenzioni evidenti di offesa. Disse: — Possiamo parlare un poco?
— Certamente.
— Tu sai che porteremo via con noi tutti i terrestri. Abbiamo con noi una seconda nave per trasportarli. Il tuo mondo non sarà più usato come una colonia.
— Questo è il messaggio che ho udito a Broter, quando siete giunti tre giorni fa.
— Volevo assicurarmi che tu comprendessi che si tratta di una decisione permanente. Noi non ritorneremo. Il tuo mondo è stato posto sotto il Divieto della Lega. Il significato di queste parole, nei vostri termini, è: posso prometterti che nessuno verrà a tagliare gli alberi o a portarvi via la terra, finché la Lega avrà vita.
— Nessuno di voi tornerà qui — disse Selver, affermazione o domanda che fosse.
— No, per cinque generazioni. Nessuno. Poi forse alcuni uomini, dieci o venti, non più di venti, forse verranno a parlare con il tuo popolo, a studiare il vostro mondo, così come facevano alcuni degli uomini che erano qui.