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Andre Norton

Il mondo delle streghe

PARTE PRIMA

l’avventura di Forte Sulcar

Capitolo primo

Il seggio periglioso

La pioggia era una cortina obliqua attraverso la viuzza squallida, e lavava la fuliggine dai muri della città, lasciandone il sapore metallico sulle labbra dell’uomo alto e magro che procedeva a grandi passi rasente agli edifici, scrutando le imboccature dei portoni, i varchi dei vicoli, ad occhi socchiusi, intento.

Simon Tregarth aveva lasciato la stazione ferroviaria due… oppure tre ore prima? Non aveva più motivo di seguire il trascorrere del tempo. Aveva smesso di avere un significato, e lui non aveva destinazione. Come gli individui braccati, i fuggiaschi… no, lui non si stava nascondendo. Camminava allo scoperto, vigile, pronto, con le spalle diritte, la testa eretta come sempre.

In quei primi giorni convulsi, quando aveva ancora un filo di speranza, quando aveva sfruttato ogni astuzia animale, ogni trucco che aveva imparato, quando aveva seguito percorsi tortuosi ed aveva confuso le proprie tracce… allora si era lasciato ossessionare dalle ore e dai minuti, allora era fuggito. Ma adesso camminava, ed avrebbe continuato a camminare fino a quando la morte, in agguato dentro uno di quei portoni, acquattata in qualche vicolo, lo avrebbe fronteggiato. E in quel caso, sarebbe caduto usando le zanne. La sua mano destra, sprofondata nella tasca infradiciata della giacca, accarezzava quelle zanne… un’arma levigata e mortale, che si adattava perfettamente al suo palmo, quasi facesse parte del suo corpo magnificamente addestrato.

Le luci al neon, rosse e gialle, tracciavano disegni inquieti sul marciapiedi reso lucido dall’acqua; la sua conoscenza di quella città era incentrata su un paio di alberghi situati al centro, alcuni ristoranti, qualche emporio, tutto quello che un viaggiatore poteva imparare a conoscere nel corso di due visite separate da una dozzina d’anni. E lui era ossessionato dall’impulso di restare allo scoperto, perché era convinto che la caccia avrebbe avuto termine quella notte o la mattina seguente.

Simon si sentiva stanco. La mancanza di sonno, la necessità di stare continuamente in guardia… Rallentò il passo davanti ad un portone illuminato, lesse la scritta sul tendone afflosciato dalla pioggia. Un portiere aprì l’uscio, e l’uomo sotto la pioggia accettò quell’invito tacito, entrando nel tepore e nell’odore fragrante dei cibi.

Il maltempo doveva aver scoraggiato i clienti. Forse fu per quello che il capocameriere l’accolse con tanta premura. O forse il taglio del suo abito, ancora presentabile, protetto dal soprabito che Simon si affrettò a togliersi, la sua arroganza vaga ma inequivocabile — il marchio tipico di un uomo che aveva comandato i suoi simili ed era stato obbedito prontamente — gli assicurarono quel tavolo ben situato e l’attenzione del cameriere.

Simon sorrise ironicamente, mentre scorreva il menù: e in quel sorriso c’era una sfumatura di autentica gaiezza. Il condannato avrebbe comunque mangiato di buon appetito. La sua immagine, riflessa e distorta dal fianco curvilineo della zuccheriera levigata, gli rimandò quel sorriso. Un volto lungo, disegnato finemente, con minuscole grinze agli angoli degli occhi, e linee più profonde incise intorno alle labbra: un viso bruno, segnato, e tuttavia senza età. Così era stato a venticinque anni, così avrebbe continuato ad essere fino a sessanta.

Tregarth mangiò lentamente, assaporando ogni boccone, mentre il tepore piacevole della sala e del vino meticolosamente scelto gli distendeva i muscoli, se non la mente ed i nervi. Ma quella distensione non alimentava un falso coraggio. Era la fine, lo sapeva… ed era arrivato ad accettarla.

«Mi scusi…»

La forchetta che Tregarth aveva sollevato, con il pezzetto di carne infilato sulle punte, non indugiò davanti alle sue labbra. Ma nonostante il ferreo autocontrollo di Simon, un muscolo fremette nella palpebra inferiore. Masticò, poi rispose, con voce normale.

«Sì?»

L’uomo che attendeva educatamente accanto alla sua tavola poteva essere un agente di cambio, il legale di una grande azienda, un medico. Aveva un’aria professionale, fatta apposta per ispirare fiducia nei suoi simili. Ma non era colui che Simon si aspettava: era troppo rispettabile, troppo cortese e corretto per essere… la morte! Anche se l’organizzazione aveva molti servitori in campi molto diversi.

«Il colonnello Simon Tregarth, immagino?»

Simon spezzò un panino e l’imburrò. «Simon Tregarth, ma non ’Colonnello’,» corresse; poi, aggiunse, ricambiando il colpo: «Come lei sa benissimo.»

L’altro si mostrò un po’ sorpreso, e poi sorrise, con quel sorriso impeccabile, suadente, professionale.

«Mi scusi, Tregarth. Ma mi permetta di precisarlo subito… io non faccio parte dell’organizzazione. Sono invece — se lei lo vuole, naturalmente — un suo amico. Mi consenta di presentarmi. Sono il dottor Jorge Petronius. Al suo servizio, posso aggiungere.»

Simon sbatté le palpebre. Aveva creduto che quel po’ di futuro che ancora gli restava avesse dimensioni precise; ma non aveva previsto quell’incontro. Per la prima volta, dopo tanti giorni di amarezza, sentì nel profondo del suo intimo un fremito di qualcosa che somigliava vagamente alla speranza.

Non pensò di mettere in dubbio l’identità dell’ometto che l’osservava attentamente dietro le lenti stranamente spesse, inquadrate da una montatura di plastica nera così pesante da apparire come una mascherina, di quelle usate nel diciottesimo secolo per camuffarsi. Il dottor Jorge Petronius era conosciuto molto bene nell’ambiente in cui Tregarth era vissuto per molti anni violenti. Se «scottavi», e se avevi la fortuna di essere ben provvisto di danaro, ti rivolgevi a Petronius. Coloro che lo facevano non venivano più ritrovati, né dalle forze dell’ordine, né dalla vendetta dei loro simili.

«Sammy è in città,» continuò quella voce meticolosa, segnata da un leggero accento.

Simon sorseggiò il suo vino. «Sammy?» Si adeguò al tono distaccato dell’altro. «Mi sento lusingato.»

«Oh, lei ha una notevole reputazione, Tregarth. Per lei, l’organizzazione ha sguinzagliato i migliori segugi. Ma dopo il modo efficiente con cui ha sistemato Kotchev e Lampson, restava solo Sammy. Tuttavia, è di stoffa un po’ diversa dagli altri. E lei, se mi perdona di essermi intrufolato nelle sue faccende personali, è in fuga da diverso tempo. È una situazione che non serve esattamente a rafforzare un individuo.»

Simon rise. Si stava godendo il vitto eccellente ed il buon vino, e persino le oblique punzecchiature del dottor Jorge Petronius. Ma non abbassò la guardia.

«Quindi, avrei bisogno di rafforzarmi? Ebbene, dottore, che rimedio mi propone?»

«C’è… il mio.»

Simon posò il bicchier di vino. Una goccia rossa colò lungo lo stelo e venne assorbita dalla tovaglia.

«Mi hanno detto che i suoi servigi costano cari, Petronius.»

L’ometto scrollò le spalle. «Naturalmente. Ma in cambio posso assicurarle la sicurezza totale. Quelli che si fidano di me ricevono un’assistenza che vale i dollari spesi. Non ho mai ricevuto reclami.»

«Purtroppo io non posso permettermi i suoi servigi.»

«Le sue attività recenti hanno eroso fino a tal punto le sue riserve in contanti? Ma certo. Tuttavia, lei è partito da San Pedro con ventimila dollari. Non può aver dato fondo completamente ad una simile somma, in questo breve tempo. E se incontrasse Sammy, ciò che resta verrebbe restituito a Hanson.»

Simon strinse le labbra. Per un istante assunse un’espressione che rispecchiava la sua pericolosità, la stessa che avrebbe veduto Sammy se si fossero incontrati faccia a faccia.

«Perché mi ha cercato… e come ha fatto?» chiese.

«Perché?» Petronius scrollò di nuovo le spalle. «Lo capirà più tardi. A modo mio sono uno scienziato, un esploratore, uno sperimentatore. Come ho fatto a sapere che era in città ed aveva bisogno dei miei servigi…? Tregarth, lei ormai dovrebbe sapere come si diffondono le voci. È un uomo segnato, e pericoloso. I suoi andirivieni vengono notati. È un peccato per lei che sia onesto.»