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La barca si mosse, i corpi degli uomini rotolarono; Simon si sentì urtare più volte e nascose il viso nel cavo del braccio. L’imbarcazione girò, rivoltandogli lo stomaco. Non era mai stato un buon marinaio. Troppo impegnato a lottare contro la nausea, non era preparato all’esplosione che parve segnare la fine del mondo con un colpo ciclopico di frastuono e di pressione.

Stavano ancora oscillando sulle onde, ma quando Simon alzò la testa, inalò una boccata d’aria pura. Si dibatté, si mosse, senza prestare attenzione ai borbottii ed alle proteste degli altri. Non c’era più nebbia… quello fu il suo primo pensiero confuso. E poi… era giorno! Il cielo, il mare intorno a loro, la costa dietro di loro erano nitidi, luminosi.

Ma quando si era levato il sole dalla riva, balzando in fiamme verso il cielo? Era stato assordato dall’esplosione, ma non accecato. Erano diretti verso l’alto mare, lasciandosi alle spalle la fonte di quel calore e di quella luce.

Contò una… due… tre imbarcazioni. Non avevano vele: e quindi dovevano avere qualche altro mezzo di propulsione. Un uomo sedeva eretto a poppa di quella su cui si trovava Simon: la forma delle spalle lo rendeva riconoscibile. Koris era al timone. Erano usciti dall’inferno che era stato il porto di Forte Sulcar: ma dov’erano diretti?

La nebbia era scomparsa, e il fuoco che divampava sulla costa li illuminava. Ma le onde che li trasportavano non erano nate in un mare tranquillo. Forse la violenza dell’esplosione con cui Magnis aveva distrutto il forte si era comunicata all’oceano. Il vento piombò su di loro come se una mano gigantesca cercasse di sospingerli a fondo, e i passeggeri delle imbarcazioni cominciarono a rendersi conto che avevano guadagnato forse qualche minuto di vita, ma non la salvezza.

PARTE SECONDA

l’avventura di Verlaine

Capitolo primo

Le nozze dell’ascia

Il mare era cupo e grigio, del colore della lama di un’ascia che non avrebbe mai acquistato lucentezza per quanto venisse levigata, di uno specchio d’acciaio appannato da un’umidità che era impossibile rimuovere. E il cielo era piatto: era difficile distinguere la linea che separava l’aria dall’acqua.

Loyse si rannicchiò sul cornicione, sotto la finestra. Temeva l’abisso, perché quella torretta che sporgeva dalle mura stava affacciata direttamente sopra le rocce maligne e spumeggianti della costa, e lei soffriva di vertigini. Eppure spesso saliva lassù perché, quando si guardava in quel vuoto, turbato solo, talvolta, dal volo di un uccello in picchiata, si poteva vedere la libertà.

Le sue mani sottili, dalle dita lunghe, premevano la pietra ai lati della feritoia, mentre si sporgeva un poco più in avanti, sforzandosi di vedere ciò che temeva, come si sforzava di fare molte cose che il suo corpo e la sua mente avrebbero voluto rifiutare. Per essere la figlia di Fulk, bisognava costruirsi una corazza interiore di ghiaccio e di ferro che nessuna ferita della carne, nessuna tentazione dello spirito poteva schiantare. E lei era impegnata ad erigere quella roccaforte interiore da più della metà degli anni della sua breve vita.

C’erano state molte donne a Verlaine, perché Fulk era un uomo dagli appetiti gagliardi. E Loyse le aveva viste venire ed andare fin dall’infanzia, e le aveva studiate freddamente. A nessuna Fulk aveva accordato il titolo di consorte, nessuna gli aveva dato altri figli… Quello era il grande rammarico di Fulk e, fino ad ora, la grande soddisfazione di Loyse. Verlaine, infatti, non spettava a Fulk per diritto di sangue: era passata a lui solo grazie al matrimonio con la madre di Loyse, e finché Loyse viveva, Fulk poteva continuare a tenersela, insieme ai ricchi diritti di saccheggio sulla spiaggia e nell’entroterra. A Karsten c’erano i parenti della madre di Loyse, che si sarebbero affrettati a rivendicare la signoria, se lei fosse morta.

Ma se Fulk avesse avuto un figlio maschio da una delle donne ben disposte — o mal disposte — che si era portate nell’enorme letto della stanza padronale, allora avrebbe potuto rivendicare ben più del diritto di restare signore di Verlaine per tutta la vita, in forza delle nuove leggi emanate dal Duca. Secondo l’antica consuetudine, per l’eredità valevano i diritti della madre; ma ora valevano quelli del padre, e solo nel caso che non vi fossero eredi maschi prevaleva la vecchia legge.

Loyse amava il suo filo sottile di potere e di sicurezza e vi si aggrappava perché era la sua unica speranza. Se Fulk fosse stato ucciso in una delle scorrerie di confine, o assassinato da qualche vendicativo rappresentante d’una famiglia spodestata, lei e Verlaine avrebbero trovato la libertà. Ah, allora tutti avrebbero veduto cosa sapeva fare una donna! Avrebbero scoperto che lei non si era limitata a piangere in segreto, per tutti quegli anni, come credeva tanta gente.

Si scostò dal cornicione e attraversò la stanza. Era fredda per il soffio del mare, e resa tetra dalla mancanza del sole. Ma lei era abituata al freddo ed all’oscurità: ormai facevano quasi parte del suo essere.

Passò oltre il letto a baldacchino, e si fermò davanti ad uno specchio. Non era lo specchio di una dama raffinata, ma uno scudo rombico, levigato e lucidato con ore di paziente fatica, che rifletteva un’immagine leggermente distorta. E guardare quell’immagine, affrontare con fermezza ciò che le diceva, faceva egualmente parte della rigorosa disciplina che Loyse imponeva a se stessa.

Era minuta: ma quella era l’unica caratteristica femminile che aveva in comune con le donne che davano piacere ai seguaci di suo padre, o con quelle più aggraziate che Fulk teneva per sé. La sua figura era snella e diritta come quella di un ragazzo, e solo le lievi curve proclamavano la sua femminilità. I capelli, intrecciati sulle spalle, scendevano fin sotto la cintola: erano folti, ma lisci e di un biondo così pallido da sembrare bianchi come quelli di una vecchia, quando non li investiva la luce del sole: e le ciglia e le sopracciglia, egualmente incolori, conferivano al suo volto un’espressione stranamente vacua, priva d’intelligenza. La pelle, tirata sulle ossa delicate del viso e del petto, era liscia e pallida; persino le labbra sottili erano del rosa più fievole. Era una creatura sbiancata, cresciuta nel buio: ma in lei c’era una vitalità forte quanto la lama flessibile che un esperto schermitore preferisce all’arma più goffa e pesante degli inesperti.

All’improvviso, le sue mani si congiunsero, si strinsero convulsamente. Poi le staccò, le lasciò ricadere lungo i fianchi: ma sotto le ampie maniche erano ancora strette a pugno, con le unghie piantate nel palmo. Loyse non si voltò verso la porta, non mostrò di aver notato il cigolio della serratura. Sapeva fino a che punto poteva spingersi nella sua sottile sfida a Fulk, e non indietreggiava mai da quel limite. Qualche volta, pensava con disperazione, suo padre non si accorgeva neppure della sua ribellione!

La porta sbatté contro la parete. Il signore di Verlaine trattava sempre ogni barriera come se dovesse espugnare una fortezza nemica. Entrò con il passo di un uomo che ha appena strappato le chiavi d’una città dalla punta della spada di un comandante sconfitto.

Se Loyse era la creatura incolore del buio, Fulk era il signore del sole e della luce sfolgorante. La bella figura cominciava a mostrare i segni della sua vita movimentata, ma era ancora magnifica: la testa coronata dai capelli d’oro rosso era portata con arroganza principesca, i lineamenti cesellati erano appena un po’ appesantiti. Molti, a Verlaine, veneravano il loro signore. Aveva una generosità aperta e capricciosa, quand’era soddisfatto, e i suoi vizi erano ben compresi e condivisi dai suoi uomini.