Siric, che rappresentava il Tempio della Fortuna, e che l’indomani avrebbe pronunciato le parole rituali mentre lei posava le mani sull’ascia di guerra, facendola sposa di Yvian come se fosse stato lo stesso Duca a stringerla, era vecchio. Aveva il volto rubizzo, e sulla sua fronte bassa pulsava una vena azzurra. Mentre ascoltava o parlava con mormorii sommessi, masticava continuamente minuscoli dolciumi, pescandoli in una scatola che il suo servitore gli teneva sempre a portata di mano; e la gialla veste sacerdotale si tendeva su una pancia di proporzioni notevoli.
Il Nobile Duarte apparteneva all’antica nobiltà. Ma, a sua volta, non sembrava molto in armonia con il suo ruolo. Piccolo e magro, con un tic che gli faceva fremere il labbro inferiore e l’aria turbata di un uomo costretto a svolgere una missione che detestava, parlava solo quando veniva interrogato. Ed era l’unico dei tre che prestasse qualche attenzione alla sposa. Loyse si accorse che la guardava con aria pensierosa, ma nel suo atteggiamento non c’era nulla che esprimesse pietà o una promessa d’aiuto. Si sarebbe detto, piuttosto, che lei fosse il simbolo di molti guai che avrebbe voluto allontanare dalla sua strada.
Loyse era lieta che la consuetudine le permettesse di sottrarsi al banchetto di quella sera. L’indomani avrebbe dovuto assistere all’inizio del pranzo di nozze: ma non appena avesse incominciato a scorrere il vino… sì… allora! Aggrappandosi a quel pensiero, si affrettò a ritornare nella sua stanza.
Aveva dimenticato la cucitrice, e trasalì nel vedere una figura profilata contro la finestra. Il vento si andava placando: la tempesta era ormai quasi passata. Ma c’era un altro suono: il lamento di una sofferenza disperata. E l’aria salmastra l’investì, spirando dalla finestra aperta.
Esasperata dalle preoccupazioni, tesa al pensiero di ciò che doveva accadere e che doveva prepararsi ad affrontare durante le prossime ventiquattro ore, Loyse attraversò fulmineamente la stanza e afferrò la finestra, scostando la ragazza per richiuderla. Sebbene il vento fosse cessato, le nubi erano ancora squarciate dai lampi. E in uno di quei bagliori, Loyse vide ciò che l’altra doveva osservare già da molto tempo.
Sospinte verso le zanne delle rocce, c’erano navi… due… tre navi. Erano vascelli ben diversi dai mercantili di piccolo cabotaggio che lei aveva visto trascinare alla catastrofe dalla corrente infida, ricchezza e maledizione di Verlaine. Quelle navi potevano solo far parte della flotta di qualche principe navigatore. Eppure, nei lampi incessanti che le permettevano di scorgerle solo per pochi secondi, Loyse non riuscì a notare la minima attività a bordo dei vascelli: nessuno tentava di sventare il disastro. Erano vascelli fantasma che veleggiavano verso la morte, senza che gli equipaggi mostrassero di preoccuparsene.
Le lanterne dei cacciatori di relitti, dei predatori della costa, si stavano già muovendo a grappoli, uscendo dalla porta di Verlaine. Un uomo che si trovasse sul posto al momento opportuno avrebbe potuto nascondere qualche ricca preda tutta per sé, nella confusione generale, anche se la mano pesante di Fulk e la pronta impiccagione di coloro che venivano colti in flagrante avevano ridotto al minimo quei furti. Avrebbero gettato le reti per tirare a terra i relitti galleggianti, eseguendo compiti cui erano allenati da molto tempo. E in quanto a coloro che fossero giunti a riva ancora vivi… Loyse trascinò via la ragazza, chiuse e sbarrò la finestra.
Ma, con sua sorpresa, il viso che l’ancella volse verso di lei non era più turbato da antichi terrori. Negli occhi scuri si leggeva intelligenza, eccitazione, una forza crescente.
Teneva la testa leggermente inclinata, come se cercasse di captare un suono nel fragore bronzeo del temporale. Era sempre più evidente: qualunque fosse stata la sua posizione sociale prima che il mare la portasse a Verlaine, non era una comune ragazza da caserma.
«Ciò che è rimasto a lungo nell’edificio.» Il tono della ragazza era remoto: parlava come se attingesse ad un’esperienza diretta che Loyse non sapeva immaginare. «Scegli, scegli bene. Perché questa notte si decide il fato di intere nazioni, e di molti uomini!»
«Chi sei?» chiese Loyse, mentre la ragazza continuava a trasformarsi sotto i suoi occhi. Non era un mostro; non assumeva forma di bestia o d’uccello come, a quanto si diceva, potevano fare le streghe di Estcarp. Ma ciò che era rimasto nascosto, ferito quasi mortalmente, dentro il suo essere, aveva ripreso a lottare per ritrovare la vita.
«Chi sono? Nessuno… niente. Ma sta per giungere qualcuno più grande dell’io che viveva un tempo. Scegli bene, Loyse di Verlaine… e vivrai. Scegli male… e morirai, come io sono morta, poco a poco, giorno per giorno.»
«Quella flotta…» Loyse si voltò a mezzo verso le finestre. Possibile che fossero invasori, temerari al punto di sacrificare le navi pur di assicurarsi una testa di ponte sul promontorio e di aprirsi la strada verso Verlaine? Era un pensiero assurdo. Le navi erano spacciate; pochi marinai sarebbero giunti vivi a riva, e là avrebbero scoperto che gli uomini di Verlaine avevano preparato loro una feroce accoglienza.
«Flotta?» le fece eco la ragazza. «Non c’è nessuna flotta… solo la vita… o la morte. Tu hai in te qualcosa di noi, Loyse. Dai buona prova di te, e vinci!»
«Qualcosa di voi? Chi sei… che cosa sei?»
«Io sono nessuno; sono nulla. Chiedimi piuttosto che cos’ero, Loyse di Verlaine, prima che la tua gente mi strappasse al mare.»
«Che cos’eri?» chiese l’altra, obbediente, come una bambina che reagisse al comando di un’adulta.
«Ero una di Estcarp, donna della costa. Ora capisci? Sì, io avevo il Potere… fino a quando mi fu strappato nella sala, qui sotto, mentre gli uomini ridevano e acclamavano. Perché il dono è nostro — suggellato in noi donne — finché i nostri corpi rimangono inviolati. Per Verlaine ero solo un corpo di femmina, null’altro. Perciò persi ciò che mi faceva vivere e respirare… persi me stessa.
«Puoi comprendere cosa significa perdere te stessa?» Scrutò Loyse. «Sì, quasi credo che tu lo sappia, perché ora ti accingi a proteggere ciò che è tuo. Il mio dono è scomparso, schiacciato come si può schiacciare l’ultima brace di un fuoco indesiderato; ma ne sono rimaste le ceneri. Quindi ora so che qualcuna, più grande di quanto avessi mai sperato di diventare, sta per giungere sospinta dalla tempesta. E lei deciderà più d’uno dei nostri futuri!»
«Una strega!» Loyse non rabbrividì: la sua eccitazione divampò. Il potere delle donne di Estcarp era leggendario. Lei aveva assorbito avidamente tutte le dicerie che erano giunte dal nord, sul conto di quelle donne e dei loro doni. E adesso si sentiva bruciare per l’occasione perduta. Perché non aveva saputo prima dell’esistenza di quella donna, perché…
«Sì, una strega. Ci chiamano così, quando ci capiscono poco. Ma non credere di poter sapere di più da me, Loyse. Io sono soltanto il tizzone di un fuoco spento da molto tempo. Impiega la tua volontà e la tua intelligenza per aiutare colei che sta per giungere.»
«Volontà e intelligenza!» Loyse rise, bruscamente. «Ho l’intelligenza e la volontà, ma non ho potere, qui. Non l’ho mai avuto. Nessun soldato mi obbedirà, o frenerà la mano al mio ordine. Faresti meglio a rivolgerti a Bettris. Quando mio padre è in buona con lei, Bettris riesce talvolta a farsi obbedire dai suoi uomini.»
«Dovrai solo approfittare dell’occasione quando si presenterà.» L’altra si lasciò scivolare lo scialle dalle spalle, lo ripiegò con cura e lo posò sul letto, mentre si avviava verso la porta. «Approfitta dell’occasione ed usala bene, Loyse di Verlaine. E questa notte dormi profondamente, perché la tua ora non è ancora giunta.»