Come il calore del centro del forte non saliva a riscaldarla, il rumore era solo un brusio in cui nessuna voce, nessun canto la raggiungeva sotto forma di parole comprensibili. Gli uomini bevevano e mangiavano, e ben presto avrebbero pensato ad altri spassi. Loyse rabbrividì, e tuttavia continuò ad indugiare, fissando la lunga tavola e coloro che vi sedevano, come se fosse necessario controllare i loro movimenti.
Siric, che nella cappella di Verlaine era riuscito ad assumere per breve tempo una sua dignità — o forse erano stati i paramenti a conferirla fugacemente al suo corpo gonfio — era di nuovo tutto pancia, e si ingozzava del contenuto d’una fila interminabile di piatti, sebbene i suoi commensali fossero passati già da un po’ al vino.
Bettris, che non aveva alcun diritto di sedere là fino alla partenza di Loyse — e lo sapeva benissimo, perché Fulk pretendeva, capricciosamente, il rispetto delle formalità — era stata attenta a cogliere il momento propizio. Ora, ornata della sgargiante spilla proveniente dal tesoro, si appoggiava al bracciolo scolpito del seggio del suo amante. Ma, notò Loyse da spettatrice attenta, di tanto in tanto Bettris lanciava di sottecchi occhiate calcolatrici al Nobile Comandante Hunold, mentre lasciava che le sue spalle bianche e tornite, incorniciate dalla stoffa rossovino della veste, accentuassero quel subdolo richiamo.
Il Nobile Duarte stava raggomitolato, occupando solo due terzi del suo seggio, e guardava nel calice che teneva in mano come se vi leggesse un messaggio che avrebbe preferito ignorare. Il taglio semplice della veste color prugna, l’espressione contratta del volto di vecchio, gli davano quasi l’aspetto di un mendicante in quell’assemblea festosa, e non fingeva neppure di divertirsi.
Loyse pensò che doveva andarsene… subito! Con gli abiti di pelle e l’usbergo di maglia, avvolta in un mantello da viaggio che la faceva apparire come un’ombra scura tra le molte ombre, irriconoscibile per gli occhi obnubilati dal vino, sarebbe stata al sicuro per un po’. Ed era freddo, più freddo di quando la brina dell’inverno screziava le mura, sebbene fosse già primavera avanzata. Loyse mosse un passo, poi un altro, prima che l’ordine muto che l’aveva condotta lì la spingesse di nuovo alla balaustrata.
Hunold si stava tendendo verso suo padre, per parlargli. Era un bell’uomo: l’interesse di Bettris per lui era prevedibile. Il suo volto astuto, con i capelli che avevano il colore del manto di una volpe, aveva un colorito virile vivido quanto quello di Fulk. Fece un gesto rapido con le mani, e Fulk proruppe in una grande risata: l’eco giunse fino alle orecchie di Loyse.
Ma sul volto di Bettris era apparsa un’improvvisa espressione delusa. Strinse la manica di Fulk, posata sul bracciolo del seggio, e le sue labbra formarono parole che Loyse non riuscì ad intuire. Fulk non girò neppure la testa per guardarla. Alzò la mano di scatto per scostarla, spingendola lontano dal tavolo, e Bettris cadde goffamente nella polvere, dietro i seggi.
Il Nobile Duarte si alzò, posando il calice. Le bianche mani esili venate d’azzurro strinsero l’ampio collo di pelliccia della veste, come se egli fosse il solo, tra tutti, a sentire il freddo che intirizziva Loyse. Parlò lentamente: si capiva che stava esprimendo una protesta. E dal modo in cui voltò le spalle alla tavola, apparve chiaro che non si aspettava una risposta educata da parte dei suoi commensali.
Hunold rise, e Fulk batté il pugno sul tavolo per chiamare il coppiere, mentre il più vecchio degli inviati del Duca si avviava fra le tavole degli invitati meno importanti, ai piedi del podio, per salire la scala che portava al suo appartamento.
Vi fu un movimento, alla porta della sala. Entrarono alcuni uomini armati e corazzati, e si diressero verso il podio. Il clamore si attenuò, mentre le guardie avanzavano, tenendo in mezzo un prigioniero. Loyse vide che sospingevano un uomo con le mani legate dietro la schiena; ma non comprese perché gli avessero infilato la testa in un sacco, in modo che quello procedeva a tentoni, barcollando, reagendo agli strattoni.
Fulk mosse il braccio, sgombrando un tratto del piano del tavolo, fra sé e Hunold, e fece volare via il calice di Duarte: il vino rimasto spruzzò Siric, che protestò energicamente senza che nessuno gli desse ascolto. Da una tasca, il signore di Verlaine estrasse un paio di monete, le gettò in aria e lasciò che roteassero sul tavolo prima di cadere mettendo in mostra una faccia. Le spinse verso Hunold, offrendogli il diritto del primo tiro.
Il Nobile Comandante le prese, le esaminò con un commento scherzoso, poi le lanciò. I due uomini chinarono la testa, poi Fulk raccolse le monete per tirarle a sua volta. Bettris, come dimentica del rude trattamento di poco prima, si era avvicinata di nuovo, e fissava i dischi roteanti con occhi ansiosi come quelli degli uomini. Quando le monete caddero, si aggrappò di nuovo al seggio di Fulk, come se il risultato le avesse dato un coraggio nuovo, mentre Fulk rideva e rivolgeva un ironico gesto di saluto all’ospite.
Hunold si alzò e girò intorno al tavolo. Gli uomini che circondavano il prigioniero si scostarono al suo avvicinarsi; non cercò di rimuovere il sacco che gli copriva la testa, ma le sue dita afferrarono il giubbotto di cuoio macchiato, per aprirne i fermagli. Con uno strattone, lo lacerò fino alla cintola, e dai presenti si levò un grido.
Il Nobile Comandante strinse con la mano la spalla della prigioniera, volgendosi a fronteggiare i sogghigni degli uomini. Poi, dimostrando una forza sorprendente per quella sua figura snella, se la issò sulla spalla, incamminandosi verso la scala. Fulk non fu il solo a protestare per il mancato spettacolo, ma Hunold scosse il capo e proseguì.
Fulk l’avrebbe seguito? Loyse non attese. Come avrebbe potuto opporsi a Fulk… o anche a Hunold? E perché, tra tutte le donne che in passato erano state prede involontarie di Fulk e dei suoi uomini, lei doveva aiutare proprio quella? Sebbene lottasse contro la consapevolezza di dover intervenire, si sentiva trasportata, costretta ad agire contro la sua volontà.
Si affrettò a rientrare nella sua camera: era molto più facile correre con quell’abbigliamento che con le vesti adatte al suo sesso. Ancora una volta, le tre sbarre scesero con un tonfo. Loyse si tolse il mantello, senza badare all’immagine dell’esile giovinetto riflessa dallo specchio. E poi l’immagine si alterò, quando lo specchio diventò una porta.
Oltre il varco c’era soltanto l’oscurità. Loyse doveva affidarsi alla memoria, alle innumerevoli esplorazioni che aveva compiuto fin da quando, tre anni prima, aveva scoperto per caso quell’aspetto di Verlaine che nessun altro pareva sospettare.
C’erano gradini; li contò mentre li scendeva correndo. Un corridoio e, in fondo, una brusca svolta. Loyse faceva scorrere la mano lungo la parete per guidarsi, cercando di calcolare la strada esatta per giungere a destinazione.
Incontrò un’altra scala: ma questa saliva. Poi apparve un cerchietto di luce su una parete: uno spioncino, che doveva guardare entro una stanza occupata. Loyse si alzò in punta di piedi, per sbirciare all’interno. Sì, era una delle camere da letto degli ospiti.
Il Nobile Duarte, ancora più avvizzito e scarno senza la sopravveste dall’ampio collo di pelliccia, passò davanti al letto e si fermò davanti al fuoco, tendendo le mani verso le fiamme, muovendo le labbra sottili come se masticasse una parola od un pensiero che non poteva sputare.
Loyse proseguì. Il secondo spioncino era buio: senza dubbio quella era la stanza assegnata a Siric. Affrettò il passo per raggiungere l’ultimo, dove un cerchietto dorato indicava la presenza della luce. Era così sicura che cercò la serratura del passaggio segreto senza neppure guardare.