La strega rise. «Una guardia? Troppo poco per resistere a due donne decise ed alla loro volontà, questa notte, o meglio questa mattina. Mostrami la capanna, e farò in modo che tu possa prendere ciò che vuoi, senza che nessuno ne sappia nulla.»
Giunsero al limitare del pascolo. I cavalli, Loyse lo sapeva, dovevano essere vicini alla capanna, dove due giorni prima della tempesta era stato messo un blocco di sale. La gemma si era spenta, quando erano uscite dalla caverna ed avevano dovuto procedere con cautela.
Una lanterna ardeva sopra la porta della casupola, e Loyse vide i cavalli che si muovevano avanti e indietro. Non le interessavano i pesanti destrieri da guerra, selezionati per portare in sella un uomo in armatura. Ma c’erano gli animali più piccoli, dal pelame ruvido, usati per la caccia tra le colline; erano capaci di resistere alle privazioni e di procedere più a lungo dei cavalli più costosi preferiti da Fulk.
Nel cerchio della luce della lanterna si muovevano due di quei cavalli… era come se il suo pensiero li avesse chiamati. Sembravano irrequieti, e agitavano le teste scrollando le criniere scomposte: ma si avvicinarono. Loyse posò le sacche da sella e fischiò sommessamente. I due cavalli si accostarono, sbuffando, con i ciuffi che spiovevano sugli occhi, e le chiazze del pelame invernale non ancora caduto li facevano apparire screziati nella luce fioca.
Se si fossero dimostrati docili, quando lei avesse preso i finimenti! Girò lentamente intorno agli animali e si avvicinò alla capanna. Non c’era traccia della guardia. Aveva abbandonato il suo posto per partecipare al banchetto? Sarebbe stata la sua fine, se Fulk l’avesse scoperto.
Loyse spinse la porta, che cigolò aprendosi. Poi sbirciò in un locale che aveva l’odore dei cavalli e del cuoio oliato, sì, e della bevanda forte che gli abitanti del villaggio preparavano con miele ed erbe, così potente da stordire persino Fulk al terzo boccale. Loyse scostò con la punta dello stivale una fiasca che rotolò via, versando un liquido appiccicoso. Il guardiano del pascolo giaceva su un pagliericcio e russava sonoramente.
Due briglie, due selle leggere, del tipo usato dai cacciatori e dai messaggeri. Non fu difficile sollevarle dai pioli e dallo scaffale. Poi Loyse uscì, e la porta si richiuse dietro di lei.
I cavalli rimasero docili, mentre lei metteva le briglie e fissava le selle, stringendole il più possibile. Ma quando le due donne furono giunte sulla strada alta che era l’unica via per uscire da Verlaine, la sua compagna chiese, per la seconda volta:
«Dove andiamo, scudo senza stemma?»
«Le montagne.» Quasi tutti i piani concreti di Loyse avevano riguardato solo la meccanica della fuga da Verlaine. Non aveva pensato ad altro. Essere libera, lontana da Verlaine le era parsa un’impresa così difficile che aveva dedicato tutti i suoi pensieri alla soluzione di quel problema, senza preoccuparsi troppo di ciò che sarebbe accaduto dopo che avesse raggiunto la pista delle montagne.
«Hai detto che Estcarp è in guerra?» Non aveva mai pensato di avventurarsi oltre la fascia accidentata del territorio dei fuorilegge, tra Verlaine ed il confine meridionale di Estcarp; ma adesso che era in compagnia di una strega di quella terra, poteva essere la scelta migliore.
«Sì, Estcarp è in guerra, scudo senza stemma. Ma hai pensato a Kars, duchessa? Ti piacerebbe visitare in segreto il tuo regno, per vedere qual è il futuro che hai gettato via?»
Loyse, sbalordita, spronò con le ginocchia la sua cavalcatura ad un trotto imprudente per quella strada accidentata.
«Kars?» ripeté senza capire.
Quel pensiero le turbinò nella mente. Sì, non voleva essere la moglie di Yvian. Ma Kars era il centro delle terre meridionali, e avrebbe potuto trovare qualche parente, nel caso che in seguito avesse avuto bisogno d’aiuto. In una città tanto grande, uno scudo senza stemma e fornito di danaro poteva perdersi facilmente. E se anche Fulk fosse riuscito a scoprire le sue tracce, non avrebbe pensato di cercarla a Kars.
«Estcarp deve attendere ancora un po’,» stava dicendo la strega. «C’è molta inquietudine. Ed io vorrei saperne di più, e conoscere chi è che soffia sul fuoco. Kars è un buon punto di partenza.»
Loyse si rese conto di essere stata manovrata, ma non si sentiva ofesa. Le sembrava invece di aver finalmente trovato il bandolo di una matassa aggrovigliata che, se lei avesse osato seguirla, l’avrebbe condotta dove aveva sempre desiderato giungere.
«Andremo a Kars,» acconsentì quietamente.
PARTE TERZA
l’avventura di Karsten
Capitolo primo
La tomba di Volt
Cinque uomini giacevano sulla sabbia battuta dalle onde nella piccola conca della baia, ed uno di essi era morto, con un grande squarcio attraverso la fronte. Era una giornata calda, e i raggi del sole investivano i loro corpi seminudi. L’odore del mare ed il fetore delle alghe in putrefazione si fondevano, con il caldo, in un’esalazione tropicale.
Simon tossì, puntellando sui gomiti il corpo dolorante. Era pieno di lividi e la nausea lo tormentava. Lentamente, si trascinò un po’ in disparte: vomitò, ma il suo stomaco contratto era vuoto. Lo spasmo lo scosse, rendendogli la lucidità: appena riuscì a dominarlo, si mise a sedere.
Ricordava solo in parte il passato immediato. La fuga da Forte Sulcar era stata l’inizio dell’incubo. Quando Magnis Osberic aveva distrutto il proiettore d’energia che forniva luce e calore al porto, non solo aveva fatto saltare la piccola città, ma aveva probabilmente aggravato la furia della tempesta che s’era scatenata poco dopo. E in quella tempesta, le poche Guardie superstiti che si erano affidate alle barche di salvataggio, erano state disperse senza speranza di mantenere la rotta.
Tre dei vascelli si erano allontanati dal porto, ma erano rimasti insieme poco più a lungo del momento in cui avevano visto per l’ultima volta il chiarore della città esplosa. E poi era venuto il terrore, perché l’imbarcazione era stata travolta, sbatacchiata e infine scagliata contro le rocce della costa, durante un periodo di tempo che non corrispondeva più ad un’ordinata successione di ore e di minuti.
Simon si passò le mani sul volto. Le ciglia erano incrostate di sale, incollate, ed era difficile aprire gli occhi. C’erano quattro uomini… Poi scorse la testa sfracellata… tre uomini e il morto.
Da una parte c’era il mare, ormai abbastanza calmo, che lambiva i grovigli di alghe gettate a riva. Di fronte all’acqua c’era una parete rocciosa accidentata che doveva offrire appigli sufficienti, pensò Simon. Ma non aveva nessuna voglia di tentare quella scalata e neppure di muoversi. Era piacevole starsene lì seduto e lasciare che il tepore del sole scacciasse il gelo mordente della tempesta e dell’acqua.
«Saaa…»
Una delle figure sulla sabbia si mosse. Un lungo braccio spazzò la sabbia, scostando una massa d’alghe. L’uomo tossì, fu scosso da conati di vomito, e alzò la testa per guardarsi intorno, stordito. Poi il Capitano di Estcarp scorse Simon e lo fissò con occhi vitrei, prima di muovere la bocca in un tentativo di sorriso.
Koris si sollevò: le spalle e le braccia massicce sostennero quasi tutto il suo peso, mentre si trascinava verso uno spazio libero della sabbia spianata dalle acque.
«A Gorm dicono,» cominciò con voce arrugginita, gracchiante, «che un uomo nato per sentire sul collo la scure del carnefice non annega. E poiché mi è stato spesso preannunciato che un’ascia è il mio destino… come vedi, i detti dei vecchi hanno ragione!»
Faticosamente, si avvicinò al più vicino degli uomini ancora distesi, e fece girare il corpo inerte, scoprendo un viso biancogrigiastro. Il petto della Guardia si alzava e si abbassava in un respiro regolare: e sembrava che non avesse ferite.