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«Jivin,» disse Koris. «Un eccellente cavaliere,» aggiunse pensieroso. E Simon si sorprese a ridere fiaccamente, premendosi i pugni contro i muscoli intormentiti dello stomaco.

«Naturalmente,» proruppe, tra gli scoppi d’ilarità quasi isterica, «c’è un gran bisogno della sua specializzazione, in questo momento!»

Ma Koris si era accostato a un altro corpo intatto. «Tunston!»

Simon ne fu lieto, vagamente. Durante il breve periodo trascorso nella Guardia di Estcarp, aveva incominciato a provare un autentico rispetto per l’anziano ufficiale. Si mosse, a fatica, e aiutò Koris a trascinare i due uomini ancora inconsci al di sopra della battigia invasa dalle alghe. Poi si mise in piedi, aggrappandosi alla parete di roccia.

«Acqua…» Il senso di benessere che aveva provato per qualche istante dopo il risveglio era svanito. Aveva sete, e tutto il suo corpo spasimava per il desiderio d’acqua, all’interno ed all’esterno, per bere e per lavarsi, per togliere la bruciante crosta di sale dalla pelle troppo sensibile.

Koris lo raggiunse, per esaminare la parete. C’erano solo due modi per uscire dalla conca in cui si trovavano. Tornare in acqua e cercare di superare a nuoto le lingue di roccia, oppure arrampicarsi su per quello strapiombo. E Simon si sentiva tremare per il disgusto al pensiero di nuotare o di tornare nell’acqua da cui era emerso miracolosamente.

«Non deve essere troppo difficile,» disse Koris, aggrottando la fronte. «Si direbbe quasi che un tempo vi fossero appigli qua e là.» Si alzò in punta di piedi, accostandosi alla roccia, tendendo le lunghe braccia sopra la testa, e insinuò le dita nelle piccole aperture. Sulle spalle, i muscoli si gonfiarono: Koris alzò un piede, inserì la punta dello stivale in una crepa e cominciò a salire.

Lanciando un’ultima occhiata alla spiaggia ed ai due uomini che adesso erano lontani dalle onde, Simon lo seguì. Si accorse che il Capitano aveva ragione. C’erano comodi appigli per le mani ed i piedi, naturali o artificiali che fossero: raggiunse Koris su un cornicione, circa tre metri al di sopra della spiaggia.

Era impossibile non riconoscere l’origine artificiale di quel cornicione, poiché si vedevano ancora i segni lasciati dagli utensili che l’avevano modellato. Saliva come una rampa rìpida verso la sommità della parete. Non era un cammino facile per un uomo tormentato dai capogiri e con le gambe deboli: ma era molto meglio di quanto avesse osato sperare.

Koris riprese a parlare. «Puoi farcela da solo? Vedrò se mi riesce di far muovere gli altri.»

Simon annuì, e subito si pentì di quel gesto. Si aggrappò alla parete ed attese che il mondo smettesse di girare spiacevolmente. Stringendo i denti, affrontò l’erta. Spesso dovette procedere carponi, fino a quando uscì sotto una sporgenza incavata. Stringendosi le mani doloranti, si affacciò in quella che poteva essere soltanto una grotta. L’erta non proseguiva: si poteva solo sperare che la caverna avesse un’altra uscita, più in alto.

«Simon!» Il grido che saliva dalla spiaggia era ansioso, incalzante.

Si spinse sul ciglio del cornicione e guardò giù.

Koris era là, con la testa rovesciata all’indietro nel tentativo di guardare verso l’alto. Anche Tunston era in piedi, e sorreggeva Jivin. Al cenno di Simon si mossero, e unendo i loro sforzi riuscirono ad issare Jivin fino al cornicione.

Simon restò dov’era. Non se la sentiva di entrare da solo nella grotta. E del resto, sembrava che la sua forza di volontà si fosse esaurita, così come il suo corpo non aveva più energie. Ma dovette entrare a ritroso nella cavità, quando Koris lo raggiunse e si girò per tirare su Jivin.

«C’è qualcosa di strano, in questo posto,» sentenziò il Capitano. «Non sono riuscito a vederti, dal basso, fino a quando hai agitato la mano. Qualcuno si è dato molto da fare per nascondere questa porta.»

«Vuoi dire che deve essere importante?» Simon indicò l’imboccatura della grotta. «Non m’importa, anche se è la sala del tesoro d’un re, purché ci dia la possibilità di trovare l’acqua.»

«Acqua!» gli fece eco Jivin, con un filo di voce. «Acqua, Capitano?» insistette, rivolgendosi fiduciosamente a Koris.

«Non ancora, camerata. C’è ancora un po’ di strada.»

Scoprirono che per varcare l’ingresso della caverna era necessario procedere carponi. Koris stentò a passare, scalfendosi la pelle delle spalle e delle braccia.

Più oltre c’era un corridoio, ma vi filtrava così poca luce che dovettero procedere a tentoni, aggrappandosi alle pareti. Simon tastava con il piede il terreno, prima di muovere un passo.

«È un vicolo cieco!» Le sue mani protese incontrarono la roccia compatta. Ma aveva parlato troppo presto, perché sulla sua destra c’era un vago barlume: si accorse che il corridoio svoltava bruscamente, ad angolo retto.

A partire da quel punto, si vedeva un po’ meglio; affrettarono il passo. Ma al termine del corridoio li attendeva una delusione. La luce non aumentò, e si trovarono nel crepuscolo, e non nella luce del sole.

La sorgente di quel chiarore attirò l’attenzione di Simon, facendogli dimenticare preoccupazioni e dolori. In linea retta, lungo una delle pareti, c’era una serie di finestre perfettamente rotonde, come gli oblò di una nave. Non riusciva a capire come mai non le avessero scorte dalla spiaggia, poiché evidentemente dovevano essere sulla superficie esterna della roccia. Ma la sostanza di cui erano formate lasciava filtrare la luce in raggi nebulosi.

Quella luce, tuttavia, era più che sufficiente per mostrare loro l’unico occupante di quella camera di pietra. Stava su un seggio scolpito nella stessa pietra, con le mani posate sui larghi braccioli, la testa abbandonata sul petto come se dormisse.

Solo quando Jivin trasse un profondo sospiro simile ad un singhiozzo, Simon comprese che si trovavano in una tomba. E il silenzio polveroso si chiuse intorno a loro, come se fossero prigionieri in un sarcofago, senza via di scampo.

Poiché si sentiva intimorito ed inquieto, Simon si avviò deciso verso i due blocchi su cui stava il seggio, fissando con aria di sfida colui che vi sedeva. C’era un fitto strato di polvere che copriva quella figura. Eppure Tregarth poteva vedere che quell’uomo — capotribù, sacerdote o re, o qualunque altra cosa fosse stato in vita — non apparteneva ad una razza affine a quella di Estcarp né a quella di Gorm.

La pelle incartapecorita era scura, levigata, come se l’arte dell’imbalsamatura l’avesse trasmutata in legno lucido. Il viso seminascosto era caratterizzato da un grande vigore, e dominato da un grande naso aquilino. Il mento era minuto, appuntito, e gli occhi chiusi erano profondamente incassati. Sembrava una creatura umanoide i cui remoti antenati non erano primati, bensì uccelli.

Quasi per accrescere l’illusione le vesti, sotto il velo di polvere, erano d’una stoffa che sembrava intessuta di piume. Una cintura cingeva la vita sottile, e attraverso i braccioli del seggio era posata un’ascia così lunga e massiccia da indurre Simon a dubitare che quell’essere fosse mai stato in grado di sollevarla.

I capelli erano pettinati in una cresta, tenuta ritta da un cerchietto ingemmato. Numerosi anelli brillavano sulle dita esili posate sulla lama e sul manico dell’ascia. E intorno al seggio, all’essere ed a quell’ascia da combattimento c’era un’atmosfera di vita aliena così intensa che Simon si arrestò davanti al primo gradino del podio.

«Volt!» Il grido di Jivin era quasi un urlo. Poi le sue parole divennero incomprensibili per Simon: il giovane balbettava, in un’altra lingua, qualcosa che poteva essere una preghiera.

«Quella leggenda è pura verità!» Koris si era portato a fianco di Tregarth. Gli brillavano gli occhi, come la notte in cui si erano aperti la strada combattendo per uscire da Forte Sulcar.