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Il dottore si dondolò sui tacchi, come se fosse agitato dalla forza delle sue parole e della sua fede. E nonostante tutto, Simon si sentì contagiare un po’ da quell’ardente entusiasmo.

«E quale di queste teorie ha intenzione di applicare al mio problema?»

Petronius rise: era di nuovo a suo agio. «Abbia la pazienza di ascoltarmi fino in fondo, senza mettersi in mente che si trova di fronte a un pazzo, e le spiegherò.» Deviò lo sguardo dall’orologio che portava al polso a quello che si trovava appeso alla parete dietro di lui. «Ci resta ancora qualche ora. Dunque, ecco di che si tratta…»

Mentre l’ometto cominciava a dire cose che apparivano assurde, Simon ascoltava obbediente. Il tepore, il liquore, la possibilità di riposare bastavano a ripagarlo. Forse più tardi avrebbe dovuto affrontare Sammy: ma scacciò dalla mente quella possibilità, concentrandosi su quanto stava dicendo Petronius.

Il vecchio orologio suonò dolcemente le ore per tre volte, prima che il dottore avesse finito. Tregarth sospirò: forse era stato ridotto alla condiscendenza solo da quel torrente di parole, ma se era vero… E poi, c’era la reputazione di Petronius. Simon si sbottonò la camicia, e tirò fuori la cintura in cui portava il danaro.

«So che non si è più sentito parlare di Sacarsi e di Wolverstein, da quando si sono messi in contatto con lei,» ammise.

«No, perché se ne sono andati attraverso le loro porte: hanno trovato i mondi cui avevano sempre aspirato, inconsciamente. È come le ho detto. Basta che qualcuno sieda sul Seggio Periglioso, perché davanti a lui si schiuda l’esistenza in cui si troverà perfettamente a suo agio il suo spirito, la sua mente… la sua anima, se preferisce chiamarla così. E va a cercarvi la fortuna.»

«Perché non ha provato anche lei?» Per Simon, quello era il punto debole del racconto. Se Petronius possedeva la chiave di quella porta, perché non se ne era servito lui stesso?

«Perché?» Il dottore abbassò lo sguardo sulle mani grassocce che aveva posato sulle ginocchia. «Perché è impossibile ritornare… e solo un uomo disperato sceglie un futuro irrevocabile. In questo mondo, ci aggrappiamo sempre alla convinzione di poter dominare la nostra vita, prendere decisioni. Ma tramite il Seggio Periglioso, cominciamo una scelta irrevocabile. Sto usando molte parole, ma so che non riesco a sceglierle esattamente per esprimere ciò che provo. Vi sono stati molti Guardiani del Seggio… e solo pochissimi l’hanno usato personalmente. Forse un giorno… Ma per ora non ne ho il coraggio.»

«Quindi vende i suoi servigi agli individui braccati? Be’, è un modo come un altro per guadagnarsi da vivere. L’elenco dei suoi clienti dovrebbe essere una lettura interessante.»

«Infatti! Molti uomini famosi hanno fatto ricorso al mio aiuto. Soprattutto alla fine della guerra. Forse non mi crederebbe, se le rivelassi l’identità di alcuni che allora si rivolsero a me, dopo che la ruota della fortuna aveva girato in modo per loro sfavorevole.»

Simon annuì. «Vi furono effettivamente diverse lacune notevoli, nelle catture dei criminali di guerra,» osservò. «E se quanto lei dice è vero, la sua pietra deve avere aperto alcuni mondi molto strani.» Si alzò, stirandosi. Poi si avvicinò al tavolo e contò il danaro estratto dalla cintura. Erano quasi tutte vecchie banconote, sudice, chiazzate di unto, come se gli affari per cui erano state usate avessero lasciato un po’ della loro sporcizia su quelle superfici grinzose. Gli rimase in mano solo una moneta. Simon la gettò in aria e la lasciò ricadere sul legno lucido. Vide l’aquila: la fissò per un momento e poi riprese la moneta.

«Questa la tengo.»

«Un portafortuna?» Il dottore era occupato ad ammucchiare ordinatamente le banconote. «La tenga pure: un uomo non ha mai abbastanza fortuna. Ed ora… mi dispiace far fretta ad un ospite in partenza, ma il potere del Seggio è limitato. Ed è molto importante scegliere il momento opportuno. Da questa parte, prego.»

Lo disse con lo stesso tono con cui l’avrebbe fatto accomodare nello studio di un dentista o nella sala di un consiglio d’amministrazione, pensò Simon. E forse lui era uno sciocco a seguirlo.

La pioggia era cessata, ma era ancora buio nel giardinetto quadrato dietro la vecchia casa. Petronius premette un interruttore, ed una luce sventagliò dalla porta posteriore. Tre pietre grige formavano un arco che superava di pochi centimetri la testa di Simon. E davanti all’arco stava una quarta pietra, grezza, informe e angolosa come le altre. Oltre l’arco c’era una staccionata di legno, alta, non verniciata, imputridita dagli anni, incrostata dalla sporcizia della città, e mezzo metro di terriccio: null’altro.

Simon rimase immobile per un lungo istante, irridendo mentalmente la parziale convinzione di pochi momenti prima. Era il momento più opportuno perché comparisse Sammy e Petronius si guadagnasse veramente l’onorario.

Ma il dottore si era piazzato a fianco della pietra posata sul terreno. La indicò.

«Il Seggio Periglioso. Se vuol sedersi, colonnello… è quasi ora.»

Un sogghigno amaro che commentava la sua follia torse le labbra sottili di Simon, mentre si accostava alla pietra e restava immobile per un istante sotto l’arco, prima di sedersi. C’era una depressione rotonda, che si adattava ai suoi fianchi. Stranamente, con un bizzarro presentimento, tese le mani. Sì: c’erano altri due incavi più piccoli per posare le palme, come aveva spiegato Petronius.

Non accadde nulla. La staccionata lignea, la striscia di terreno muffito rimasero dov’erano. Stava per alzarsi quando…

«Ecco!» La voce di Petronius risuonò, flautata, in una parola che era quasi un richiamo.

Vi fu un turbinio entro l’arco di pietra, una dissoluzione.

Simon vide un tratto di brughiera, sotto il grigio cielo dell’alba. Un vento fresco, carico di uno strano aroma tonificante, gli sfiorò i capelli. Qualcosa, dentro di lui, si tese come un segugio tenuto a guinzaglio per seguire il vento fino alla sua origine, attraverso la brughiera.

«Il suo mondo, colonnello: e le auguro di essere felice!»

Simon annuì distrattamente, senza più badare all’ometto che gli aveva rivolto quelle parole. Forse era un’illusione: ma l’attraeva come null’altro l’aveva attirato in vita sua. Senza una parola di commiato, Simon si alzò e si avviò verso l’arco.

Provò un istante di panico immenso — una paura di cui non aveva mai immaginato l’esistenza, peggiore di qualunque sofferenza fisica — come se l’universo si fosse schiantato brutalmente ed egli fosse stato scagliato in un nulla spaventoso. Poi si accasciò bocconi sull’erba fitta e dura.

Capitolo secondo

Caccia nella brughiera

La luce dell’alba non annunciava l’avvento del sole, poiché l’aria era saturata da una nebbia densa. Simon si alzò in piedi e si guardò alle spalle. C’erano due rozze colonne di pietra rossastra, e più oltre non c’era un cortiletto, ma un tratto della stessa brughiera verdegrigia che si perdeva nella muraglia di nebbia. Petronius aveva avuto ragione: quello era un mondo che non conosceva.

Stava rabbrividendo. Sebbene avesse portato con sé il soprabito, non aveva il cappello, e l’umidità gli incollava i capelli sulla testa, e gli scorreva sul collo e sulle guance. Aveva bisogno di un rifugio… di una meta. Lentamente, Simon girò su se stesso. Entro il cerchio dell’orizzonte non si scorgeva neppure un edificio. Con una scrollata di spalle, decise di allontanarsi in linea retta dalle colonne di roccia: una direzione valeva l’altra.

Mentre procedeva sulle zolle fradice, il cielo si rischiarò, la nebbia si alzò, e il territorio cambiò lentamente. C’erano altri ammassi di pietre rosse, e il terreno ondulato presentava un maggior numero di salite e discese. Davanti a lui, ad una distanza che non era in grado di giudicare, una linea accidentata tagliava il cielo e suggeriva la presenza di colline o montagne. E l’ultimo pasto se lo era concesso molte ore prima. Strappò una foglia da un arbusto e la masticò distrattamente: aveva un sapore pungente, ma non sgradevole. Poi udì i suoni della caccia.