Ma… Simon si fermò. L’uomo non era morto, sebbene tenesse gli occhi chiusi ed il corpo immobile. Una mano era posata sul quadro dei comandi, e Simon vide un indice premere un pulsante.
Tregarth scattò. Ebbe un istante di tempo per vedere gli occhi aprirsi, il volto torcersi per il furore… e forse per la paura. Poi afferrò il cavo che andava dalla calotta al quadro fissato alla parete. Lo strappò, staccando parecchi fili sottili. Qualcuno gridò un avvertimento; e vide la canna di un’arma puntare su di lui. Il Kolder era entrato in azione.
Simon si salvò solo perché la calotta ed i cavi intralciarono i movimenti del Kolder. Con il lanciadardi, colpì violentemente quella faccia piatta dalla bocca ringhiante e silenziosa, dagli occhi pieni d’odio. Il colpo lacerò la pelle, facendo sgorgare sangue dalla guancia e dal naso. Simon afferrò il polso dell’avversario e lo torse, e una sottile pellicola di vapore schizzò verso il soffitto, anziché verso il suo volto.
Piombarono sul sedile da cui si era alzato il Kolder. Vi fu uno schiocco secco, e il fuoco divampò sul collo e sulla spalla di Simon. Un urlo soffocato gli echeggiò nelle orecchie. Il volto, sotto il velo di sangue, era alterato dalla sofferenza, eppure il Kolder continuava a combattere con forza ferrea.
Quegli occhi, sempre più grandi, riempivano la sala… Simon stava precipitando entro quegli occhi. Ma poi gli occhi sparirono, vi fu solo una strana finestra velata dalla nebbia in un altro luogo… forse in un altro tempo. Tra le colonne apparve una schiera di uomini, abbigliati di grigio, a bordo di macchine che gli erano sconosciute. Si voltavano a sparare alle loro spalle, mentre si muovevano: erano gli ultimi superstiti di un contingente in fuga.
Gli uomini proseguirono, in colonna; e Simon provò, come loro, una disperazione, ed un freddo di cui non aveva mai conosciuto l’esistenza, un’emozione che schiantava la mente ed il cuore. La Porta… superata la Porta, allora avrebbero avuto il tempo: tempo di ricostruire, di essere ciò che volevano essere. Dietro di loro stavano un impero annientato, un mondo devastato… davanti a loro un mondo nuovo di cui impadronirsi.
I fuggitivi scomparvero. Sìmon vide solo una faccia pallida, arrossata dalla ferita che lui stesso aveva inferto. Intorno a loro aleggiava l’odore della stoffa e della carne bruciacchiata. Per quanto tempo era durata la visione della valle… meno di un secondo? Lui stava ancora lottando, sforzandosi di spezzare contro il sedile il polso dell’avversario. Per due volte colpì: poi le dita si allentarono, e la pistola a vapore cadde dalla loro stretta.
Per la prima volta, dopo quell’unico urlo, il Kolder emise un suono, un piagnucolio spezzato che nauseò Simon. Una seconda, fuggevole visione di quegli uomini in fuga… un attimo di rammarico appassionato che fu come un colpo per l’uomo che involontariamente lo condivideva. Si dibatterono sul pavimento, e Simon cercò di trascinare il Kolder contro un cavo crepitante. Simon sbatté con forza la calotta metallica dell’avversario sul pavimento. Per l’ultima volta, un frammento di visione si trasmise dall’uomo e lui, e in quell’attimo Simon comprese… forse non che cos’erano i Kolder… ma da dove erano venuti. Poi non vi fu più nulla, e Simon si scostò dal corpo inerte, si sollevò a sedere.
Tunston si chinò e cercò di staccare la calotta dalla testa inerte. Rimasero tutti sconcertati, quando risultò evidente che non si trattava di una calotta ma di una parte permanente di quel corpo.
Simon si alzò in piedi. «Lascialo!» ordinò alla Guardia. «E stai attento che nessuno tocchi quei fili.»
Poi si accorse che la vibrazione nelle pareti e nel pavimento, la sensazione di vita erano svaniti, lasciando uno strano vuoto. Quel Kolder era stato forse il cuore che, cessando di battere, aveva ucciso la cittadella, così come la sua razza aveva ucciso Sippar.
Simon si diresse verso la rientranza dove stava l’ascensore. L’energia era finita, e non c’era modo di scendere ai piani inferiori? Ma la porta della cabina era aperta. Affidò il comando a Tunston, e prendendo con sé due Guardie, chiuse la porta.
Ancora una volta, la fortuna parve accompagnare gli uomini di Estcarp, perché la chiusura del pannello mise in azione il meccanismo dell’ascensore. Simon si aspettava di trovarsi nel piano del laboratorio, quando la porta si fosse riaperta. Ma quando la cabina si arrestò, si trovò di fronte a qualcosa di tanto diverso che per un momento restò immobile, mentre i due uomini lanciavano esclamazioni di sorpresa.
Erano sulla sponda di un porto sotterraneo, odoroso di mare e di qualcosa d’altro. L’illuminazione era incentrata su un molo circondato dall’acqua ai due lati, che puntava verso l’esterno, nell’oscurità. E su quel molo c’erano i corpi di numerosi uomini: uomini come loro, non Kolder.
Mentre i morti viventi che avevano affrontato nei combattimenti per le strade erano vestiti ed armati, questi erano nudi, o portavano solo indumenti sbrindellati, come se da molto tempo non si preoccupassero più dell’esigenza di vestirsi.
Alcuni si erano accasciati accanto a piccoli camion ancora carichi di casse. Altri giacevano in fila, come se fossero crollati mentre marciavano schierati. Simon andò ad osservare il più vicino. L’uomo era veramente morto: ed era morto almeno da un giorno.
Evitando i cadaveri, i tre di Estacarp si spinsero fino all’estremità del molo, ma tra i morti non trovarono neppure un uomo armato. E nessuno era del sangue di Estcarp. Se quelli erano stati gli schiavi dei Kolder, appartenevano tutti ad altre razze.
«Guarda, Capitano.» Una delle Guardie che seguivano Simon s’era fermato accanto ad un cadavere e l’osservava meravigliato. «Non ho mai visto un uomo come questo. Guarda il colore della sua pelle, dei capelli: non è di queste terre!»
Lo sventurato schiavo dei Kolder giaceva riverso come se dormisse. Il corpo, coperto solo da uno straccio intorno ai fianchi, era di un colore brunorossiccio, ed i capelli erano crespi. Evidentemente, i Kolder avevano gettato le loro reti in regioni lontane.
Senza sapere perché, Simon arrivò fino all’estremità del molo. Forse Sippar era stata eretta, in origine, sopra un’immensa caverna sotterranea, o forse gli invasori l’avevano scavata per i loro scopi, probabilmente connessi alla nave adibita al trasporto dei prigionieri. Quello era il porto della flotta dei Kolder?
«Capitano!» L’altra guardia l’aveva preceduto, senza interessarsi ai cadaveri che cercava di evitare. S’era fermato all’estremità del molo di pietra e accennava a Simon di raggiungerlo.
Vi fu un movimento nelle acque, che salirono lambendo il molo, e costrinsero i tre uomini a ritirarsi. Sebbene la luce fosse limitata, videro qualcosa di grosso che affiorava.
«Giù!» ordinò Simon. Non avevano tempo di ritornare all’ascensore: potevano solo sperare di confondersi tra i cadaveri.
Si buttarono a terra, vicini: Simon appoggiò la testa sul braccio, con il lanciadardi spianato, e guardò quel tumulto. L’acqua ruscellava dalla mole che stava salendo. Distinse la prua aguzza e la poppa egualmente affusolata. Aveva intuito esattamente: era una delle navi dei Kolder entrata in porto.
Si chiese se il suo respiro suonava rumoroso come gli pareva che fosse quello dei due uomini distesi accanto a lui. Erano vestiti, a differenza dei morti intorno a loro: forse due occhi acuti avrebbero potuto scorgere lo scintillio dei loro usberghi e qualche arma Kolder li avrebbe inchiodati prima che potessero tentare di difendersi?
Ma quella nave argentea, dopo essere salita alla superficie, non si mosse più; si limitò a dondolarsi sulle onde della caverna come se fosse morta anch’essa. Simon la scrutò attentamente e poi trasalì, quando l’uomo che gli stava accanto gli toccò il braccio, mormorando.