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Ma, con l’infittirsi delle tenebre, dal basso non salirono altri suoni che Simon poteva interpretare come segnali d’attacco. I cani s’erano sdraiati in semicerchio ai piedi del pinnacolo, vagamente visibili a causa della pelle bianca. Tregarth pensò di nuovo alla possibilità di salire fino in cima alla roccia… avrebbero potuto anche attraversarla, se la caviglia della donna fosse migliorata. Quando fu completamente buio, lei si mosse. Gli posò per un momento le dita sul polso, poi gliele insinuò nel cavo della mano. Mentre vigilava e ascoltava, Simon si accorse di un’immagine che prendeva forma nella sua mente. Un coltello… lei voleva un coltello! Liberò la mano, estrasse il temperino, e se lo vide strappare ansiosamente dalle dita.

Quello che avvenne poi, Simon non riuscì a comprenderlo: ma ebbe il buon senso di non intromettersi. Il cristallo opaco incastonato nel bracciale irradiò una luce fioca, da fuoco fatuo. In quel barlume, vide che la donna si feriva con la punta del temperino alla base del pollice. Una goccia di sangue spicciò sulla pelle e cadde sul cristallo: per un momento, il liquido denso oscurò il chiarore.

Poi, dall’ovale uscì una luce più intensa, un raggio di fiamma. La sua compagna rise di nuovo: una risata sommessa, soddisfatta. In pochi secondi, il cristallo ridivenne opaco. Lei posò la mano sulla pistola, e Simon lesse in quel gesto un altro messaggio. L’arma non era più necessaria: sarebbero arrivati i soccorsi.

Il vento della palude, con i suoi sbuffi putridi, gemeva intorno alle lingue di roccia. La donna tremava di nuovo; la cinse con un braccio, attirandola a sé, per unire il calore di entrambi. Nell’arco del cielo balenò la spada zigzagante di un fulmine purpureo.

Capitolo terzo

Simon prende servizio

Un altro lampo vivido lacerò il cielo, immediatamente sopra il pinnacolo. E fu l’inizio di una furiosa battaglia di cielo, terra, vento e tempesta, quale Simon non aveva mai visto. Si era mosso sui campi di battaglia, sotto la sferza dei terrori creati dall’uomo, ma questo era peggio, in un certo senso… forse perché sapeva che non c’era la possibilità di dominare quei lampi, quelle raffiche, quelle esplosioni.

La roccia tremava e sussultava sotto di loro che si tenevano aggrappati l’uno all’altro come bestiole impaurite, chiudendo gli occhi ad ogni scossa. Vi era un ruggito incessante, non il rombo normale del tuono, ma il rullare di un gigantesco tamburo battuto con un ritmo che cantava rabbiosamente nel sangue e faceva turbinare il cervello. La donna teneva il viso premuto contro di lui, e Simon stringeva quel corpo tremante come nell’ultima promessa di salvezza in un mondo squassato.

Continuò all’infinito: scrosci, schianti, lingue di luce, tonfi, raffiche di vento… Ma non pioveva ancora. Un tremito della roccia cominciò a riecheggiare gli schianti dei tuoni.

Un’ultima, spettacolare esplosione lasciò Simon accecato ed assordato per lunghi istanti. Ma quando i secondi divennero minuti senza che si udisse altro, quando persino il vento parve essersi esaurito in brevi soffi convulsi, rialzò la testa.

Il fetore della carne animale bruciata ammorbava l’aria. Un bagliore ondeggiante, non troppo lontano, indicava un incendio tra gli arbusti. Ma la quiete benedetta continuò, e la donna si mosse tra le sue braccia, si liberò. Ancora una volta, Simon ebbe una sensazione di sicurezza, una sicurezza frammista al trionfo, come se una partita si fosse conclusa vittoriosamente per lei.

Rimpianse che non vi fosse abbastanza luce per permettergli di vedere la scena sottostante. I cacciatori e i segugi erano sopravvissuti alla tempesta. Una luce rossa-arancio salì dalle fiamme lambenti verso la scarpata. Ai piedi del pinnacolo giaceva un groviglio di corpi bianchi, irrigiditi. Sulla strada c’era un cavallo morto: sul collo, era appoggiato il braccio di un uomo.

La donna si spinse avanti, scrutando con occhi ansiosi. Poi, prima che Simon potesse trattenerla, si calò oltre l’orlo: la seguì, temendo un attacco. Ma vide solo i corpi che giacevano nella luce dell’incendio.

Il calore della fiamma li raggiunse: era piacevole. La sua compagna tese entrambe le braccia verso quel chiarore. Simon girò intorno ai segugi morti, ustionati e sfigurati dal fulmine che li aveva uccisi. Si avvicinò al cavallo morto, pensando d’impadronirsi delle armi del cavaliere. E poi vide muoversi le dita strette nella ruvida criniera dell’animale.

Il cacciatore doveva essere ferito mortalmente, e certo Simon provava ben poca pietà per lui, dopo la caccia spietata attraverso la brughiera e l’acquitrino. Ma non poteva neppure lasciare quell’uomo così imprigionato. Lottò contro il peso del cavallo morto, e trascinò il corpo straziato dove la luce dell’incendio poteva mostrargli chi e che cosa aveva soccorso.

Il viso stravolto, macchiato di sangue, non dava segno di vita; ma il petto schiacciato si alzava e si riabbassava faticosamente, e di tanto in tanto l’uomo emetteva un gemito. Simon non avrebbe saputo dire a quale razza apparteneva. I capelli cortissimi erano molto chiari, quasi argentei: il naso era aquilino, grifagno tra gli zigomi ampi… uno strano abbinamento. E Simon pensò che doveva essere giovane, sebbene in quel volto non vi fosse nulla che facesse pensare al tipico soldatino.

Il corno ammaccato era ancora appeso alle sue spalle. E i ricchi ornamenti, la fibbia ingemmata, facevano capire che non si trattava di un semplice soldato. Simon, sapendo che non poteva far nulla per aiutarlo, rivolse l’attenzione alla cintura ed alle armi.

Prese il coltello e se lo mise al fianco. Estrasse dalla fondina la strana arma e l’esaminò attentamente. Aveva una canna, e qualcosa che doveva essere un grilletto. Ma la sentiva stranamente sbilanciata, nella mano; il calcio aveva una modellatura assurda. Se l’infilò nella camicia.

Stava per sganciare un altro oggetto, un cilindro sottile, quando una mano bianca passò fulmineamente al di sopra della sua spalla e se ne impadronì.

Il cacciatore si mosse come se quel tocco avesse raggiunto il suo cervello stordito. Gli occhi si aprirono, ferini, con uno scintillio di luce come quello che balena negli occhi d’una belva nel buio. E in quegli occhi c’era qualcosa che costrinse Simon ad arretrare.

Aveva incontrato uomini pericolosi, uomini che volevano la sua morte e che avrebbero cercato di realizzare il loro intento con spietata freddezza. Si era trovato faccia a faccia con uomini che gli ispiravano un odio fulmineo. Ma non aveva mai visto un’emozione simile a quella che scorgeva in fondo agli splendenti occhi verdi del cacciatore.

Ma Simon si accorse che quegli occhi non erano rivolti verso di lui. La donna stava lì accanto, un po’ sbilanciata perché cercava di non appoggiarsi alla caviglia dolorante, e rigirava tra le mani il cilindro che aveva strappato alla cintura del cacciatore. Simon si aspettava quasi di scorgere nella sua espressione una risposta al furore ardente e corrosivo con cui la fronteggiava il ferito. Lei stava fissando con fermezza il cacciatore, senza tradire la minima emozione. L’uomo mosse le labbra, convulsamente. Alzò la testa con uno sforzo tormentoso che lo straziò in tutto il suo essere e sputò. Poi lasciò ricadere la testa al suolo, e giacque immobile, come se quell’ultimo gesto di odio avesse prosciugato le sue ultime riserve d’energia. Nella luce dell’incendio ormai morente, il viso si decontrasse stranamente, la bocca si aprì. Simon non ebbe bisogno di notare l’interruzione del respiro faticoso per capire che era morto.

«Alizon…» La donna pronunciò quella parola scrupolosamente, guardando prima Simon, poi il cadavere. Si chinò, indicando l’emblema sulla giubba del morto. «Alizon.»

«Alizon,» ripeté Simon, rialzandosi in piedi. Non se la sentiva di prendere altro.