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La donna si girò verso il varco da cui passava la strada per scendere verso la pianura del fiume.

«Estcarp…» Ancora una volta, quella pronuncia meticolosa di un nome: ma lei indicava con il dito la pianura. «Estcarp,» ripeté, ma questa volta si toccò il petto.

E come se quel nome avesse evocato una risposta, dall’altra parte del varco venne un pigolio acuto. Non era un richiamo interrogativo, come quello dei corni dei cacciatori, ma piuttosto un fischio, come potrebbe emetterlo un uomo, tra i denti, in attesa di agire. La donna rispose gridando una frase che venne portata via dal vento e riecheggiò tra le barriere rocciose.

Simon udì lo scalpiccio degli zoccoli, il tintinnio del metallo contro il metallo. Ma poiché la sua compagna stava rivolta verso il basso in atteggiamento di benvenuto, si accontentò di attendere. Ma la sua mano si strinse intorno all’automatica, dentro la tasca, e ne puntò la canna verso lo spazio tra i pinnacoli.

I cavalieri avanzarono uno alla volta. Passarono tra le guglie, ed i primi due si disposero ai lati, con le armi in pugno. Quando videro la donna le rivolsero un richiamo: evidentemente erano amici. Il quarto si avviò direttamente verso il punto in cui attendevano Simon e la sua compagna. Il suo cavallo era alto, massiccio, come se fosse stato selezionato per la sua capacità di reggere il peso. Ma il cavaliere era così piccolo di statura che Simon lo credette un ragazzetto… fino a quando balzò a terra.

Nella luce del fuoco, il suo corpo era lucente, e riflessi scintillanti brillavano sull’elmo, la cintura, la gola e il polso. Era basso, ma le spalle ampie facevano spiccare ancora di più la modesta statura, perché le braccia ed il torace sembravano più adatti ad un uomo alto almeno un terzo di più di quanto fosse lui. Portava un usbergo di maglia metallica, che gli aderiva addosso come se fosse una stoffa, e cedeva ad ogni movimento delle sue membra con estrema elasticità. L’elmo aveva un cimiero raffigurante un uccello ad ali protese. Oppure era un uccello vero, cristallizzato da un incantesimo in quell’immobilità innaturale? Gli occhi che brillavano nella testa protesa parevano fissare Simon con cupa ferocia. La liscia calotta metallica su cui stava posato terminava in una sorta di sciarpa di maglia, avvolta intorno al collo ed alla gola dell’uomo. Questi la tirò, impaziente, mentre camminava, liberando il volto. E Simon vide che non si era ingannato, dopotutto, nella sua prima impressione. Il guerriero dall’elmo ornato di un falco era giovane.

Giovane, sì, ma anche duro. La sua attenzione era divisa tra la donna e Simon; le rivolse una domanda mentre scrutava attento Tregarth. Lei rispose con un torrente di parole, tracciando segni nell’aria. Il nuovo arrivato, allora, si toccò l’elmo, in un evidente saluto allo straniero, Ma era la donna a dominare la situazione.

Indicando il guerriero, continuò la lezione linguistica: «Koris.»

Non poteva essere altro che un nome proprio, decise Simon. Si puntò il pollice sul petto:

«Tregarth. Simon Tregarth.» Attese che la donna dicesse il suo nome.

Ma lei si limitò a ripetere quanto aveva udito. «Tregarth, Simon Tregarth,» come se si imprimesse nella mente quelle sillabe. Vedendo che non reagiva in altro modo, le rivolse una domanda.

«Chi?» chiese, indicandola.

Il guerriero Koris trasalì, e si portò la mano all’arma appesa alla cintura. E la donna corrugò la fronte, e poi la sua espressione divenne così fredda e distante che Simon si rese conto di aver commesso un grave errore.

«Chiedo scusa.» Allargò le mani in un gesto che sperò di vedere interpretato come una richiesta di perdono. Aveva fatto qualcosa che non doveva, ma aveva agito per ignoranza. E la donna doveva averlo compreso, perché diede qualche spiegazione al giovane ufficiale, anche se questi non guardò Simon con troppa simpatia, durante le ore che seguirono.

Koris, mostrando una deferenza che non s’intonava con gli abiti laceri della donna ma che appariva giustificata dalla sua aria autorevole, la fece salire dietro di lui sul grande cavallo nero. Simon montò dietro una delle altre guardie, infilando le dita nella cintura del cavaliere per tenersi saldo, mentre si dirigevano verso la pianura del fiume, ad una velocità cui neppure l’oscurità della notte impediva di avvicinarsi al galoppo.

Molto tempo dopo, Simon giaceva immobile in un nido di lenzuoli e coperte e fissava, senza vederla, la curva del baldacchino di legno scolpito. Se non avesse tenuto gli occhi spalancati, sarebbe sembrato addormentato, come lo era pochi minuti prima. Ma la vecchia capacità di passare dal sonno alla veglia non era andata perduta con il suo ingresso in quel nuovo mondo. Era impegnato ad analizzare le impressioni ed a classificare ciò che aveva scoperto, cercando di sommare un fatto all’altro per ricavare un quadro concreto di ciò che stava intorno a lui, al di là di quel letto massiccio e dei muri di pietra della stanza.

Estcarp non era semplicemente la piana del fiume: era una serie di fortezze, solide roccheforti disposte lungo una strada che segnava la frontiera. Le fortezze dove avevano cambiato i cavalli, avevano mangiato per poi proseguire, spinti da una necessità di affrettarsi che Simon non aveva capito. E alla fine erano giunti ad una città dalle torri rotonde, grigioverdi come il suolo in cui erano radicate sotto il sole pallido di un nuovo giorno: torri e mura ed altri edifici di una razza alta e fiera, dagli occhi scuri e dai capelli neri come i suoi; una razza di umani dal portamento regale che sembravano portare addosso uno strano peso d’antichità.

Ma quand’erano entrati in Estcarp, Simon era così stravolto dalla stanchezza, così stordito dalle esigenze del suo corpo dolorante che ricordava solo poche immagini. E su tutte dominava la sensazione dell’antichità, di un passato così remoto che le torri e le mura avrebbero quasi potuto essere parte dell’ossatura montuosa di quel mondo. Aveva camminato per le vecchie città dell’Europa, aveva visto strade percorse un tempo dalle legioni romane. Eppure l’atmosfera aliena d’antichità che aleggiava in quel luogo era ancora più opprimente, e Simon doveva lottare contro quella sensazione per riordinare i fatti.

Era stato alloggiato al centro della città, in una struttura massiccia che aveva la solennità di un tempio e la saldezza di un fortino. Ricordava appena l’ufficiale, Koris, che lo accompagnava in quella stanza e gli indicava il letto. E poi… più nulla.

Più nulla?

Simon aggrottò la fronte. Koris, quella stanza, il letto… Eppure, mentre fissava gli intagli del baldacchino, trovò qualcosa che gli era familiare, stranamente familiare… come se i simboli avessero un significato in procinto di rivelarsi.

Estcarp… una terra e una città antichissime, e un modo di vivere! Simon si tese. Come l’aveva capito? Eppure era vero, reale come il letto su cui riposava il suo corpo intormentito dalla cavalcata, come gli intarsi sopra la sua testa. La donna inseguita… apparteneva alla razza di Estcarp… come il cacciatore morto alla barriera era appartenuto ad un altro popolo, un popolo ostile.

Le guardie dei posti di frontiera erano tutti uomini dello stesso stampo, alti, bruni, alteri. Solo Koris, con il suo corpo deforme, era diverso da coloro che comandava. Eppure i suoi ordini venivano obbediti; e solo la donna sembrava avere una maggiore autorità.

Simon sbatté le palpebre; le sue mani si mossero sotto le coperte, e si sollevò a sedere, volgendo gli occhi verso le tende alla sua sinistra. Aveva captato quel passo lieve, e non si stupì quando gli anelli della cortina tintinnarono, e la stoffa azzurra si aprì. Vide l’uomo cui aveva pensato fino a quel momento.

Senza armatura, Koris appariva ancora più strano. Le spalle troppo larghe, le braccia troppo lunghe sembravano pesare più del resto del suo corpo. Non era alto: e la vita sottile, le gambe snelle apparivano ancora più minute in confronto alla parte superiore del corpo. Ma su quelle spalle c’era la testa dell’uomo che Koris avrebbe potuto essere se la natura non gli avesse giocato quello scherzo crudele. Sotto la calotta di folti capelli color grano c’era il volto di un ragazzo appena divenuto uomo… di un ragazzo che non era soddisfatto di ciò che era. Era un volto di una bellezza sorprendente, in contrasto con quelle spalle: la testa di un eroe abbinata al corpo di uno scimmione.