Cento mondi erano stati addestrati e armati, altri mille apprendevano l'uso della ruota e dell'acciaio, del trattore e del reattore. Ma Rocannon l'etnologo, il cui lavoro consisteva nell'imparare, non nell'insegnare, e che era vissuto su molti mondi tecnologicamente arretrati, non era convinto che la soluzione più saggia consistesse nel puntare ogni cosa sull'uso delle armi e delle macchine.
Dominata dalle specie umanoidi aggressive e tecniche del Centauro, della Terra e di Tau Ceti, la Lega aveva trascurato certe altre capacità, certi altri poteri, certe potenzialità della vita intelligente, e dava i propri giudizi in base a criteri troppo ristretti.
Quel pianeta, che non aveva neppure un nome diverso dalla sua sigla, Fomalhaut II, non avrebbe mai richiamato molta attenzione su di sé, poiché, prima dell'arrivo della Lega, nessuna delle sue specie sembrava essersi spinta molto più in là della leva e della forgia. Altre razze di altri mondi potevano venir fatte progredire più rapidamente, per contribuire alla lotta contro il nemico proveniente dall'esterno della Galassia, una volta che questi tornasse.
Del resto, questo stato di cose era inevitabile. Pensò a Mogien, che si offriva di combattere con le spade di Hallan contro una flotta di bombardieri a velocità-luce. Ma che dire, se i bombardieri a velocità-luce, e perfino quelli ultra-luce, si fossero rivelati poco più efficaci delle spade di bronzo, al confronto con le armi del Nemico? E se le armi del Nemico fossero state armi mentali? Non sarebbe stato meglio imparare qualcosa sulle varie forme in cui si presenta la mente, e sui suoi poteri?
La politica della Lega era troppo limitata; portava a un eccessivo spreco, e adesso, evidentemente, aveva condotto alla ribellione. Se la tempesta che covava su Faraday dieci anni prima era adesso scoppiata, ciò significava che un giovane mondo della Lega, dopo avere imparato rapidamente l'arte della guerra, dopo avere ricevuto le armi, stava ora cercando di costruirsi un proprio impero tra le stelle.
Egli, Mogien e i due servitori dai capelli bruni consumarono pagnotte di buon pane nero cotto nelle cucine di Hallan, bevvero giallo vaskan da una borraccia di pelle, e presto s'addormentarono. Tutt'intorno al loro piccolo fuoco sorgevano altissimi gli alberi della foresta: rami scuri carichi di lunghe pigne chiuse, scure anch'esse. Nella notte, una pioggia fredda e sottile bisbigliò attraverso la foresta. Rocannon si infilò ancor più profondamente nel sacco a pelo di piumosa pelliccia di helidor, e dormì per tutta la lunga notte, accompagnato dal bisbiglio della pioggia. I destrieri del vento fecero ritorno all'alba, e alle prime luci del giorno i quattro viaggiatori erano già in volo, portati da un vento che spirava in direzione dei pallidi territori vicino al golfo dove abitavano gli Uomini d'Argilla.
Atterrando verso mezzogiorno su un campo di grezza argilla, Rocannon e i due servitori, Raho e Yahan, si guardarono attorno con sorpresa, non scorgendo segno di vita. Mogien, con l'assoluta certezza della sua casta, si limitò a dire: — Arriveranno…
E infatti arrivarono: i tozzi ominoidi che Rocannon aveva già visto nel museo, anni prima. Ne arrivarono sei, la cui statura giungeva al petto di Rocannon, o alla cintura di Mogien. Erano nudi, avevano la pelle di un colore grigiastro simile a quello dei loro campi d'argilla, e tutto sommato il loro aspetto era poco invitante. Quando parlarono, Rocannon provò una strana impressione: era impossibile determinare chi parlasse. Sembrava che parlassero tutti insieme, con un'unica voce profonda.
Parziale telepatia coloniale. Rocannon ricordò le parole della Guida, e guardò con rispetto gli ometti sgraziati e il loro raro dono. I suoi tre alti compagni non condividevano il suo entusiasmo. Avevano un aspetto irritato.
— Che cosa cercano gli Angyar e i servi degli Angyar nei campi dei Signori della Notte? — domandò uno degli Uomini d'Argilla (o tutti insieme), parlando in Lingua Comune, un dialetto Angyar usato da tutte le specie.
— Sono il Signore di Hallan — disse Mogien, che appariva gigantesco. — Con me è qui Rokanan, padrone delle stelle e delle strade, che attraversano la notte, servitore della Lega di Tutti i Mondi, ospite e amico del Clan di Hallan. Grandi onori gli sono dovuti! Conduceteci da chi è adatto a parlare con lui. Ci sono parole che dovranno essere pronunciate, perché presto nevicherà nell'annocaldo, i venti soffieranno al contrario e gli alberi cresceranno con la cima piantata nella terra, e le radici nell'aria! — Le parole dell'Angyar costituivano un vero piacere per l'orecchio, pensò Rocannon, anche se non erano certamente capolavori di diplomazia.
Gli Uomini d'Argilla rimasero immobili davanti a loro, perplessi e in silenzio. — È davvero così? — domandò infine uno di loro.
— Sì, e il mare si trasformerà in legno, e le pietre metteranno i piedi! Portateci dai vostri capi, i quali sanno cos'è un Signore delle Stelle, e non perdiamo altro tempo!
Cadde nuovamente il silenzio. Fermo in mezzo ai piccoli trogloditi, Rocannon provò una strana sensazione, come di ronzii di mosche che gli volassero intorno alle orecchie. Gli Gdemiar stavano confabulando con la mente.
— Venite — dissero gli Uomini di Argilla, a voce alta, e si incamminarono sul campo coperto di leggera fanghiglia. Raggiunto un punto in mezzo alla spianata, si chinarono fino a terra e poi si scostarono, rivelando un foro nel terreno e una scala a pioli che ne usciva: l'ingresso al Regno della Notte.
I servitori rimasero in attesa con i grifoni, mentre Rocannon e Mogien scesero in un labirinto sotterraneo di gallerie scavate nel tufo e con il pavimento di cemento, illuminate dalla luce elettrica, in cui stagnava un forte odore di sudore e di cibi ammuffiti. Camminando silenziosamente dietro di loro, le guardie li condussero in una camera male illuminata, sferica, simile a una bolla in uno spesso strato di roccia, e li lasciarono soli.
Rimasero in attesa. L'attesa si prolungò.
Perché diavolo, si domandava Rocannon, la prima missione esplorativa aveva scelto proprio quella razza come possibili futuri membri della Lega? E pensava di avere la spiegazione, anche se si trattava di una considerazione un po' maliziosa. Le prime missioni provenivano dal freddo Centauro, e gli esploratori si erano affrettati a precipitarsi nelle caverne degli Gdemiar, felici di sottrarsi alla luce accecante, e al calore del grande sole di tipo A-3. Secondo i centauriani, le razze dotate di buon senso vivevano sottoterra, su mondi come quello.
Per Rocannon, invece, il sole caldo e bianco e le notti illuminate da un sistema di quattro lune, le grandi escursioni climatiche e i venti perennemente agitati, l'aria ricca di aromi vegetali e la gravità leggera, che aveva portato allo sviluppo di numerosissime specie animali capaci di volare, risultavano perfettamente compatibili, e anzi, molto piacevoli. Ma questo, si sentì in dovere di aggiungere, significava che anche lui aveva le sue prevenzioni, e che il suo giudizio sugli Gdemiar era ancor meno corretto di quello dei centauriani.
Gli Gdemiar erano molto intelligenti, di questo non c'era dubbio. Inoltre, erano telepatici: un potere assai più raro, e assai meno conosciuto, dell'elettricità, ma le prime spedizioni non avevano dato peso alla cosa. Avevano dato agli Gdemiar un generatore e una nave a circuito chiuso, qualche libro di matematica, una pacca sulla spalla, e poi se ne erano andate. Che cosa aveva fatto, da quel momento in poi, il piccolo popolo? Lo domandò a Mogien.
Il giovane signore, che in tutta la sua vita non doveva avere visto molto più che una candela o una torcia impregnata di resina, lanciò uno sguardo privo di interesse alle lampadine che pendevano dal soffitto. — Sono sempre stati bravi a fabbricare le cose — disse, con la sua sorprendente, incisiva arroganza.