— Rokanan — disse Mogien, parlandogli per la prima volta come si parlava a un consanguineo, senza titoli onorifici. — Vicino a questa foresta abitano i miei cugini di Kyodor. È un forte castello, trenta spade Angyar e tre villaggi di plebei. Ci aiuteranno a punire il Popolo d'Argilla della sua insolenza…
— No — disse Rocannon. — Di' alla tua gente di tenere d'occhio gli Uomini d'Argilla, certo, perché potrebbero farsi comprare dal nemico. Ma non dovete infrangere il codice d'onore; non devono scoppiare guerre per me. Non servirebbe a niente: in momenti come questo, Mogien, il destino di un singolo uomo non ha importanza.
— Se non ha importanza quello — disse Mogien, fissandolo con la sua faccia scura, — che cosa ha importanza, allora?
— Signori — intervenne a quel punto uno dei due plebei, Yahan, che era giovane e snello, — laggiù c'è qualcuno, fra gli alberi.
Indicò un punto sulla riva opposta del fiume: un guizzo di colore che si poteva scorgere in mezzo alle conifere scure.
— Fiia! — disse Mogien. — Tenete alla briglia i destrieri. — Tutt'e quattro le grandi bestie stavano guardando l'altra sponda, con le orecchie ritte.
— Mogien, Signore di Hallan, attraversa in amicizia le strade dei Fiia! — La voce di Mogien echeggiò lungo l'ampio, basso ruscello, e dopo qualche istante, nella zona in cui il sole giocava con l'ombra, ai piedi degli alberi, comparve una minuscola figura. Parve danzare mentre le macchie di luce guizzavano su di essa: era difficile tenerla sotto lo sguardo, perché il gioco di luce la faceva cambiare continuamente. Quando venne verso di loro, Rocannon credette che camminasse sull'acqua, senza disturbarne la superficie, tanto aveva il passo leggero. Il grifone dal manto a strisce si alzò sulle zampe larghe, ma leggere poiché avevano le ossa cave come quelle degli uccelli, e si diresse verso l'acqua con passo felpato. Quando il Fian giunse sotto l'argine, la grande bestia piegò la testa: il Fian allungò il braccio e accarezzò le orecchie. Poi si diresse verso i quattro uomini.
— Salute a te, Mogien erede di Hallan, Capelli di Sole, Portatore di Spade! — Il timbro della sua voce era sottile e dolce come quello di un bambino; anche la sua corporatura era minuta e leggera come quella di un bambino, ma la faccia era quella di un adulto. — Salve a te, ospite degli Hallan, Signore delle Stelle, Errante!
Un paio di occhi strani, grandi, chiarissimi, si fissò per un istante in quelli di Rocannon.
— I Fiia conoscono sempre i nomi, e sanno tutte le notizie — disse Mogien, sorridendo. Ma il piccolo Fian non ricambiò il sorriso; perfino Rocannon, che aveva visitato una sola volta, per un breve periodo, uno dei loro villaggi durante una ricognizione della sua squadra, rimase sorpreso di tale comportamento.
— Signore delle Stelle — disse la voce leggera, che ora tremava per l'emozione, — chi cavalca le navi del vento che vengono a uccidere?
— Uccidere… la tua gente?
— Tutto il mio villaggio — disse il piccolo uomo. — Io ero sui monti, con il gregge. Ho sentito nella mente il mio popolo chiamare aiuto, e sono accorso, e li ho trovati fra le fiamme, che bruciavano e gridavano. C'erano due navi con le ali che girano. Sputavano fuoco.
«Adesso sono rimasto solo, e devo parlare da solo. Nella mia mente, dove prima c'era il mio popolo, adesso ci sono solo il fuoco e il silenzio. Perché è successo, Signori?
Il suo sguardo correva da Rocannon a Mogien. Entrambi erano senza parole. Il Fian si piegò su se stesso, come un uomo colpito mortalmente, sedette in terra e si nascose la faccia tra le mani.
Mogien si avvicinò a lui, con le mani sull'elsa di entrambe le spade. Tremando dall'ira, disse: — Qui, ora, giuro vendetta su coloro che hanno ucciso i Fiia! Rokanan, come può essere? I Fiia non hanno spade, non hanno ricchezze, non hanno nemici! Guarda, tutto il suo popolo è morto, tutti coloro con cui parlava senza parole, i compagni della sua tribù. Nessun Fian vive da solo. Da solo morirebbe. Perché hanno distrutto il suo popolo?
— Per farvi conoscere la loro potenza — disse Rocannon, in tono arcigno. — Portiamolo a Hallan. Mogien.
L'alto Signore si chinò sulla piccola figura accovacciata. — Fian, amico dell'uomo, monta in sella con me. Non posso parlarti nella mente come facevano i tuoi compagni, ma vedrai che non tutte le parole che viaggiano nell'aria sono vuote.
Montarono in sella in silenzio, e il Fian si sistemò davanti a Mogien, come un bambino: in breve i quattro animali furono nuovamente in volo. Un vento dal sud, carico di una leggera pioggia, favorì la loro andatura, e l'indomani, verso la fine del pomeriggio, tra un battito e l'altro delle ali possenti, Rocannon scorse la scalinata marmorea che attraversava la foresta, il Ponte sull'Abisso, sovrastava le verdi piante, e le torri di Hallan illuminate dagli ultimi raggi del sole.
La gente del castello, biondi signori e servitori dai capelli neri, si raccolse intorno a loro nella corte del volo; ogni bocca era piena della notizia dell'assalto al castello più vicino, a oriente. Reohan, i cui abitanti erano stati massacrati fino all'ultimo.
Anche questa volta erano stati due elicotteri e alcuni uomini armati di pistole laser. I guerrieri e i contadini di Reohan erano stati massacrati senza poter restituire neppure un colpo. La gente del castello di Hallan impazziva di rabbia per l'offesa; a questo sentimento si aggiunse anche lo stupore, quando videro il Fian che aveva viaggiato con il loro giovane signore e vennero a conoscenza dei motivi che l'avevano portato al castello.
Molti di loro, infatti, abitando nelle fortezze più settentrionali degli Angien, non avevano mai visto in precedenza un Fian, ma tutti li conoscevano attraverso le leggende, e sapevano che era vietato ucciderli. Un assalto contro uno dei loro castelli, per sanguinoso che potesse essere, rientrava nel loro modo guerriero di vedere, ma un attacco contro i Fiia era un sacrilegio. La collera si mescolava allo stupore.
Più tardi, quella sera, nella sua stanza della torre, Rocannon udì il tumulto proveniente dalla sottostante Sala dei Banchetti, dove tutti gli Angyar di Hallan si erano radunati per giurare di sterminare il nemico, fra torrenti di metafore e tuoni di iperboli.
Gli Angyar erano una razza di spacconi: vendicativi, arroganti, ostinati, analfabeti, e privi delle forme in prima persona del verbo «non essere capace di». Nelle loro leggende non c'erano dèi; c'erano soltanto eroi.
In mezzo a quel chiasso lontano, Rocannon notò una voce che parlava da distanza ravvicinata. Rimase scosso, e la sua mano sobbalzò sulla radio. Finalmente era riuscito a trovare la banda di comunicazione del nemico. Una voce continuava a parlare, in una lingua che Rocannon non conosceva. Sarebbe stata una vera fortuna, se il nemico avesse parlato in Galattico, ma purtroppo non era così; si parlavano migliaia di lingue, sui mondi della Lega. Inoltre c'erano quelle di pianeti che, come il mondo su cui si trovava Rocannon, non ne facevano parte, e quelle di pianeti ancora da cartografare.
La voce cominciò a leggere un elenco di numeri, e Rocannon riuscì a capirli, perché erano in Celiano, lingua di una razza famosa per i suoi successi nel campo della matematica: la superiorità della matematica di Tau Ceti aveva portato alla diffusione dei nomi cetiani dei numeri. Ascoltò con attenzione, ma l'ascolto non gli rivelò nulla: si trattava di semplici serie di cifre. La voce s'interruppe bruscamente, lasciando soltanto il sibilo del rumore di fondo.
Rocannon guardò il piccolo Fian, all'altro capo della stanza. La piccola creatura aveva chiesto di rimanere con lui, e ora sedeva a gambe incrociate sul pavimento, accanto alla finestra.
— Era la voce del nemico, Kyo.