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Ora Rocannon capì perché si fossero intromessi nel duello: la guardia, infrangendo le regole, aveva colpito il destriero invece del cavaliere. L'animale di Mogien, con un'ala nera macchiata di sangue rosso e cupo, cercava con fatica di raggiungere le dune. Accanto a Rocannon sfrecciarono i quattro plebei, lanciati all'inseguimento delle due bestie senza cavaliere, che stavano tornando indietro per raggiungere il castello e le sue tranquille scuderie. Rocannon bloccò la strada ai due animali, ponendosi tra loro e il cortile. Vide che Raho ne catturava uno lanciando abilmente una fune, e nello stesso momento sentì un urto al polpaccio. Sussultò, e con il suo brusco movimento impauri l'animale già eccitato; poi, per tenerlo a bada, tirò troppo forte le redini, e la bestia curvò la schiena: per la prima volta da quando Rocannon era salito sulla sua groppa, il destriero cercava di disarcionarlo, saltando e impennandosi nell'aria, in alto sul castello.

Le frecce fischiavano intorno a Rocannon come una grandinata al contrario. Davanti a lui passarono come saette i quattro plebei e Mogien, che adesso era montato su una bestia dagli occhi feroci e dal manto giallo. Gridavano e ridevano. Il destriero di Rocannon si calmò e seguì i compagni. — Prendi, Signore delle Stelle! — esclamò Yahan, e Rocannon scorse una sorta di cometa dalla coda nera, lanciata verso di lui. La afferrò istintivamente, per autodifesa, e vide che era una torcia di resina, accesa. Si unì agli altri, che volavano in cerchio intorno alla torre, a distanza ravvicinata, con l'intenzione di appiccare fuoco al tetto di paglia e ai travicelli di legno che lo sorreggevano.

— Hai una freccia nella gamba sinistra — Mogien gridò, mentre lo sorpassava. Rocannon si limitò a ridere allegramente, lanciando la torcia dritta in una feritoia, dove era appostato un arciere. — Bel colpo! — fece Mogien, e andò a gettarsi a capofitto sul tetto della torre, per rialzarsi poi tra un mare di fiamme.

Yahan e Raho erano ritornati con fasci di torce fumanti, dopo essere andati sulle dune ad accenderle, e le gettavano dovunque ci fossero canne e legno da incendiare. La torre era ormai una cascata di scintille, e i destrieri, infuriati sia perché venivano continuamente trattenuti con le redini, sia perché si sentivano colpire dalle scintille, cercavano di tuffarsi verso i tetti del castello, ruggendo in modo orribile.

I difensori del castello avevano smesso di lanciare frecce, e dopo qualche momento un uomo uscì nel cortile: aveva un elmo che sembrava un'insalatiera di legno, e sollevava sulla testa un oggetto che dapprima parve a Rocannon uno specchio, ma che era una bacinella piena d'acqua.

Dando uno strattone alle redini dell'animale giallo su cui era montato, e che cercava ancora di ritornare alla scuderia, Mogien si portò al di sopra dell'uomo ed esclamò: — Parla, presto! I miei uomini sono andati ad accendere altre torce!

— Di quale feudo sei, Signore?

— Hallan!

— Il Signore-Esterno di Plenot chiede una tregua per spegnere l'incendio, Signore di Hallan!

— In cambio della vita e dei beni degli uomini di Tolen, te la concedo.

— Così sia — esclamò l'uomo, e, sempre tenendo alta la bacinella piena d'acqua, rientrò nel castello. Gli assalitori si ritirarono sulle dune, e la gente di Plenot corse alle pompe, formando una fila che si passava i secchi d'acqua. La torre bruciò totalmente, ma le pareti e i tetti del castello si salvarono. Gli abitanti del castello erano una ventina o poco più, comprese le donne. Quando i fuochi furono spenti, un gruppo di persone uscì dal portone, attraversò il promontorio roccioso e raggiunse le dune. Davanti a tutti veniva un uomo alto e magro, che aveva la pelle color guscio di noce e i capelli di fiamma degli Angyar; dietro di lui venivano due soldati che ancora portavano il loro curioso elmo a insalatiera, e per ultimo un gruppetto di sei, tra uomini e donne, vestiti di stracci, che si guardavano intorno con aria rassegnata. L'uomo alto teneva ancora nelle mani la ciotola piena d'acqua.

— Sono Ogoren di Plenot — disse, — Signore-Esterno di questo feudo.

— Sono Mogien, erede di Hallan.

— La vita della gente di Tolen è tua, Signore. — Indicò con un cenno del capo il gruppo lacero. — A Tolen non c'erano beni.

— C'erano due navi, Esterno.

— Dal nord viene volando il drago, e tutto vede — borbottò Ogoren, irritato. — Le navi di Tolen sono tue.

— E tu riavrai i destrieri quando le navi saranno ormeggiate a Tolen — disse Mogien, magnanimo.

— Da quale altro signore ho avuto l'onore di essere sconfitto? — domandò Ogoren, adocchiando Rocannon, che indossava l'equipaggiamento e la corazza di bronzo dei guerrieri Angyar, ma che non aveva spada. Anche Mogien fissava l'amico, e Rocannon rispose con il primo appellativo che gli venne in mente: il nome con cui lo chiamava Kyo.

— Sono Olhor — disse, — l'Errante.

Ogoren lo fissò con un'espressione strana, poi rivolse un inchino a tutt'e due e disse: — La ciotola è piena, Signori.

— Che l'acqua non si versi, e che il patto non sia spezzato!

Ogoren voltò loro le spalle e ritornò con i suoi due uomini al forte che ancora fumava. Non degnò di una sola occhiata i prigionieri liberati, che si erano raccolti in un gruppetto. A questi ultimi, Mogien disse soltanto: — Conducete con voi il mio destriero; ha un'ala ferita. — Poi, risalendo sulla bestia gialla del castello di Plenot, si alzò in volo. Rocannon lo seguì, voltandosi indietro a guardare il triste gruppetto che faceva lentamente ritorno a casa, nel castello in rovina.

Quando raggiunsero Tolen, il suo spirito combattivo si era ormai spento; aveva ripreso a darsi dello sciocco. C'era davvero una freccia, piantata nel suo polpaccio sinistro: la vide quando smontò di sella, sulla duna. Non sentì alcun dolore, finché non fece una sciocchezza: la strappò via, senza prima assicurarsi che la punta non fosse uncinata (come era in realtà). Gli Angyar non usavano veleno, ma c'era sempre il rischio di un'infezione. Influenzato dal coraggio dei compagni, si era vergognato di indossare la sua tuta difensiva, quasi invisibile, in occasione dell'incursione. Pur possedendo un'armatura capace di resistere a un laser, aveva rischiato di morire in quel maledetto tugurio per la scalfittura di una freccia dalla punta di bronzo. Era partito per salvare un pianeta, e a malapena era riuscito a salvare la pelle.

Il più vecchio dei quattro servitori venuti da Hallan, un individuo tranquillo e tarchiato chiamato Iot, entrò nella capanna, e quasi senza fare parola, gentilmente, si inginocchiò e lavò la ferita di Rocannon, coprendola con una fasciatura. Poi giunse Mogien, che era ancora vestito da battaglia: sembrava alto tre metri a causa dell'elmetto con la cresta, e largo un metro e mezzo a causa delle grandi spalline rigide, simili ad ali.

Dietro di lui venne Kyo, silenzioso come un bambino in mezzo ai guerrieri di una razza più forte. Poi entrarono Yahan, Raho e il giovane Bien; il pavimento cigolò sotto tutto quel peso, quando si sedettero attorno al focolare.

Yahan riempì sette coppe dall'orlo d'argento, e Mogien, con gravità, le passò agli altri. Tutti bevvero. Rocannon cominciò a sentirsi meglio. Mogien gli domandò della sua ferita, e Rocannon si sentì ancora meglio.

Bevvero altro vaskan, mentre gli abitanti del villaggio, timorosi e ammirati, sbirciavano per un istante attraverso la porta, dalla stradicciola buia. Rocannon si sentiva eroico e magnanimo. Mangiarono, bevvero ancora, e poi, nella capanna soffocante e piena di fumo, fra l'odore del pesce fritto e del sudore, Yahan si alzò in piedi, prese una cetra di bronzo con le corde d'argento, e cominciò a cantare.