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Yahan e uno dei marinai di Tolen erano stati ripescati immediatamente. L'altro marinaio e i due destrieri erano affogati, imprigionati sotto la nave. Ormai si erano allontanati a sufficienza dalla riva, e le correnti d'acqua e i venti della foce erano più deboli. Affollata di uomini silenziosi e bagnati, la nave continuò ad avanzare attraverso l'acqua rossa e la nebbia impenetrabile.

— Rokanan, perché sei asciutto?

Ancora intontito, Rocannon abbassò gli occhi sul suo vestito inzuppato, e non capì.

Kyo, tremante per il freddo, rispose sorridendo per lui: — L'Errante porta una seconda pelle. — Rocannon finalmente capì, e mostrò a Mogien la «pelle» della sua tuta: l'aveva indossata la sera prima, per ripararsi dal freddo e dall'umidità della notte; rimanevano scoperti soltanto la testa e le mani. Così, si disse, l'aveva ancora, e l'Occhio del Mare era ancora nascosto sul suo petto; ma la radio, le carte geografichc, la pistola, tutto il resto che lo collegava alla sua civiltà era sparito.

— Yahan, tu ritornerai a Hallan.

Servitore e padrone erano fermi sulla riva del continente meridionale, faccia a faccia, nella nebbia, con la risacca che echeggiava sotto di loro. Yahan non rispose.

Erano rimasti in sei cavalieri, con tre soli grifoni. Kyo poteva cavalcare con uno dei plebei, e Rocannon con un altro, ma Mogien era troppo pesante per cavalcare con un compagno per lunghe distanze; allo scopo di non affaticare i destrieri, era preferibile che il terzo plebeo ritornasse a Tolen con la barca. Mogien decise di rimandare indietro il più giovane, Yahan.

— Non ti mando indietro per qualcosa di male che tu abbia fatto o non abbia fatto, Yahan. Ora vai, i marinai aspettano.

Il servitore non accennò a muoversi. Dietro di lui, i marinai stavano spegnendo, a calci, il fuoco presso cui avevano mangiato. Qualche pallida scintilla si alzò per breve tratto nella nebbia.

— Signore Mogien — bisbigliò Yahan, — mandate indietro Iot.

Mogien aggrottò la fronte, e portò la mano all'elsa della spada. — Va', Yahan!

— Non andrò, Signore.

La spada uscì sibilando dal fodero, e Yahan, con un grido disperato, fece un balzo indietro, si voltò e scomparve nella nebbia.

— Aspettatelo per qualche tempo — disse Mogien, rivolto ai marinai. La sua faccia era impassibile. — Poi andate per la vostra strada. Noi adesso dobbiamo trovare la nostra. Piccolo Signore, preferisci stare in sella al mio destriero, finché procede al passo? — Kyo era tutto raggomitolato, come se avesse molto freddo; da quando erano approdati sulla costa del Fieni, non aveva mangiato e non aveva detto una parola. Mogien lo pose sulla sella del destriero grigio e s'incamminò alla testa dell'animale, allontanandosi dalla costa per dirigersi verso l'entroterra.

Rocannon lo seguì, guardandosi dietro per osservare Yahan e poi davanti per osservare Mogien, e meditando su quello strano essere, il suo amico, che un attimo prima avrebbe ucciso un uomo, in preda a una fredda collera, e un attimo dopo era capace di parlare con gentilezza e semplicità. Arrogante e fedele, spietato e gentile, proprio in questa sua mancanza di coerenza mostrava la sua natura di grande Signore.

I pescatori avevano detto che c'era un insediamento a est dell'insenatura dove erano sbarcati, e quindi si diressero a oriente nella pallida nebbia che li circondava come una cappa soffice di cecità. Con i destrieri avrebbero potuto innalzarsi al di sopra della coltre di nebbia, ma i grandi animali, esausti e imbronciati dopo essere rimasti legati due giorni sulla nave, non erano disposti a volare. Mogien, Iot e Raho li conducevano per la briglia, e Rocannon veniva per ultimo. Rocannon teneva d'occhio, senza farsene accorgere, il cammino già percorso, per vedere se comparisse Yahan, che gli era molto simpatico. Per riscaldarsi indossava la tuta, senza però mettere il cappuccio, che lo avrebbe isolato completamente dal mondo. Ma anche con la tuta, provava un certo disagio a camminare nella fitta nebbia su una spiaggia sconosciuta; mentre camminava, cercava fra la sabbia un qualsiasi tipo di bastone o di mazza. Tra i solchi lasciati dalle ali dei destrieri, festoni di alghe e di salsedine essiccata, vide un bastone lungo e bianco, trascinato fin lì dalle onde. Lo liberò dalla sabbia e subito si sentì meglio, adesso che era armato. Ma, fermandosi, era rimasto indietro: nella nebbia, si affrettò a seguire le orme lasciate dai compagni. Una figura si alzò alla sua destra. Capì subito che non era un suo compagno, e sollevò il bastone in posizione difensiva, ma qualcuno lo afferrò alle spalle e lo rovesciò a terra. Qualcosa che sembrava cuoio bagnato gli tappò la bocca. Riuscì a liberarsi, ma come ricompensa ricevette un colpo sulla testa che gli fece perdere i sensi.

Quando tornò in sé, dolorosamente e un poco alla volta, si accorse che giaceva supino sulla sabbia. Molto al di sopra di lui, due grandi e nebbiose figure discutevano gravemente. Riusciva a capire solo in parte il loro dialetto Olgyior: — Lasciamolo qui — diceva uno, e l'altro diceva qualcosa come: — Uccidiamolo subito, non ha niente.

A queste parole, Rocannon si rotolò sul fianco e riuscì a infilare la testa e la faccia nel cappuccio della tuta, e a chiuderla. Uno dei giganti si chinò per guardarlo, e Rocannon vide che era soltanto un corpulento plebeo infagottato in pelli di animale.

— Portalo da Zgama; forse Zgama lo vuole — disse l'altro. Dopo qualche ulteriore discussione, Rocannon venne sollevato per le braccia e portato via di peso. L'uomo che lo trasportava procedeva trotterellando, di buona lena; Rocannon cercò di liberarsi, ma la testa gli girava, aveva il cervello annebbiato. Si accorse confusamente che la nebbia diventava più scura, gli parve di udire alcune voci, di vedere un muro di bastoni, argilla e canne intrecciate e una torcia che ardeva, infilata in un anello. Poi un tetto sulla testa, altre voci e il buio. Infine, a faccia in giù su un pavimento di pietra riprese i sensi e sollevò la testa.

Presso di lui, in un focolare grande come una capanna, ardeva un fuoco di legna. Gambe nude e pelli stracciate formavano una siepe tra Rocannon e il fuoco. Alzò maggiormente la testa e vide una faccia: un plebeo dalla pelle bianca e dai capelli neri, con un copricapo di pelliccia. — Chi sei? — domandò con voce aspra e profonda, guardando torvamente Rocannon.

— Io… io chiedo l'ospitalità di questa casa — disse Rocannon, quando riuscì a mettersi in ginocchio. Per il momento non poté fare di più.

— Ne hai già assaggiato una prima dose — disse l'uomo barbuto, mentre Rocannon si toccava il gonfiore sull'occipite. — Ne vuoi ancora? — Il mucchio di gambe infangate e di brandelli di pelliccia intorno a lui si mosse: occhi scuri che sbirciavano, facce bianche che sogghignavano.

Rocannon si alzò in piedi. In silenzio, senza muoversi, attese che gli ritornasse l'equilibrio e che diminuisse un poco il dolore che gli martellava nel cervello. Poi sollevò la testa e fissò gli occhi lucidi e neri dell'uomo che lo teneva prigioniero. — Tu sei Zgama — disse.

L'uomo barbuto fece un passo indietro; sembrava spaventato. Rocannon, che su vari mondi si era già trovato in situazioni difficili, sfruttò al massimo questo vantaggio psicologico. — Io sono Olhor, l'Errante — disse. — Vengo dal nord e dal mare, dalla terra che giace al di là del sole. Vengo in pace e me ne vado in pace. Lasciata la casa di Zgama, me ne andrò verso sud. Che nessuno mi fermi!

— Ah — fecero tutte le bocche spalancate, nelle facce bianche, fissandolo. Lui continuò a guardare Zgama senza battere ciglio.

— Qui il padrone sono io — fece l'omone, con voce aspra e ansiosa. — Nessuno se ne va senza il mio permesso.

Rocannon non parlò, e non distolse lo sguardo.

Zgama vide che nella battaglia degli occhi era il perdente: tutta la sua gente continuava a guardare lo straniero, con gli occhi sgranati. — Smettila di fissarmi! — urlò. Rocannon non si mosse. Comprese di trovarsi davanti a un avversario ostinato, ma era troppo tardi per cambiare tattica. — Smettila di fissarmi! — urlò di nuovo Zgama, poi afferrò una spada da sotto il suo mantello di pelli, la sollevò dietro le spalle e, con un colpo tremendo, cercò di staccare dal collo la testa dello straniero.