— Domani sera. Non sono in grado di correre. Dovrò ricorrere a un bluff. Aggancia le catene tra loro, Yahan, in modo che reggano il mio peso. E metti il gancio qui in basso, accanto alla mia mano. — Uno dei dormienti si rizzò a sedere, sbadigliando; con un sogghigno che balenò per un istante nella luce lunare, Yahan si stese immediatamente a terra e parve svanire fra le ombre.
Rocannon lo vide uscire all'alba, insieme con gli altri, per condurre al pascolo gli herilor: anch'egli indossava una pelle d'animale sporca di fango, e i suoi capelli neri spuntavano fuori come una scopa. Di nuovo Zgama gli si avvicinò e lo guardò torvo. Rocannon era certo che sarebbe stato disposto a dare di buon grado metà delle sue greggi e delle sue mogli per sbarazzarsi di quel prigioniero sovrannaturale, ma era intrappolato dalla sua stessa ferocia: il carceriere è il prigioniero del prigioniero.
Zgama aveva passato la notte dormendo sulle ceneri calde, e aveva i capelli sporchi di cenere grigia, cosicché sembrava lui, l'uomo bruciato, e non Rocannon, la cui pelle nuda splendeva chiara. Uscì a grandi passi, e di nuovo la sala fu vuota per buona parte della giornata, anche se rimase un paio di guardie alla porta. Rocannon passò il tempo facendo esercizi isometrici di ginnastica, senza farsi notare. Quando una donna che passava davanti a lui lo sorprese mentre si stirava, continuò a stirarsi come se niente fosse, ondeggiando ed emettendo una bassa, arcana cantilena. La donna cadde a terra carponi e scappò via, piagnucolando.
Dalle finestre entrò la nebbia del crepuscolo, alcune donne accigliate fecero bollire una pignatta di carne e alghe marine, dall'esterno giunse il tubare di centinaia di animali, e Zgama e i suoi uomini fecero ritorno, con la barba e le pellicce luccicanti di goccioline di condensazione della nebbia. Sedettero sul pavimento per mangiare. La stanza era chiassosa, puzzava ed era satura di vapore. La tensione di ritrovarsi ogni notte davanti a un evento sovrannaturale cominciava a trasparire: le facce erano torve, le voci erano irascibili.
— Portate legna, questa volta lo faremo arrostire! — urlò Zgama, alzandosi per buttare sulla pira un ciocco acceso. Ma nessuno si mosse.
— Ti mangerò il cuore, Olhor, quando lo vedrò friggere tra le tue costole! Mi appenderò al naso la tua pietra azzurra! — Zgama schiumava di rabbia, reso frenetico dallo sguardo fisso e silenzioso che sopportava ormai da due notti. — Ti farò chiudere gli occhi! — urlò, e afferrato un pesante bastone che giaceva sul pavimento, lo calò con forza sulla testa di Rocannon, balzando però indietro nello stesso momento, come se avesse avuto paura del proprio gesto. Il bastone cadde fra i ceppi ardenti e rimase in bilico sopra il resto della legna.
Lentamente, Rocannon abbassò la mano destra, strinse il bastone e lo estrasse dal fuoco. La punta era già in fiamme. La sollevò finché non raggiunse il livello degli occhi di Zgama, e solo allora, con altrettanta lentezza, fece un passo avanti. Le catene che lo tenevano legato si sciolsero e caddero a terra. Il fuoco divampò e si aprì, in una pioggia di braci e di faville, intorno ai suoi piedi nudi.
— Fuori! — disse, dirigendosi verso Zgama, che indietreggiò prima di un passo e poi di un altro. — Tu non sci più il padrone. L'uomo senza legge è schiavo, l'uomo crudele è schiavo, lo stupido è schiavo. Tu sei mio schiavo, e io ti caccio via come una bestia. Fuori! — Zgama si afferrò ai due stipiti della porta, ma il bastone fiammeggiante puntava contro i suoi occhi: dovette uscire nel cortile. Le guardie, accovacciate a terra, non facevano una sola mossa. La nebbia era rischiarata da alcune torce di resina che splendevano presso la porta principale; gli unici rumori erano il mormorio degli animali nella stalla e il sibilo della risacca che giungeva dal basso. Un passo dopo l'altro, Zgama indietreggiò fino a raggiungere la porta con le due torce. La sua faccia bianca e nera aveva la fissità di una maschera, mentre il bastone rovente si avvicinava. Muto per la paura, si afferrò al tronco che faceva da pilastro alla porta, e bloccò il passaggio con il suo corpo massiccio. Rocannon, esausto e vendicativo, premette forte contro il suo petto la punta fiammeggiante, spinse Zgama a terra, e, camminando sul suo corpo, uscì nell'oscurità e nella nebbia, fuori della porta. Fece circa cinquanta passi nel buio: poi inciampò, e non riuscì a rialzarsi.
Nessuno lo inseguì. Nessuno uscì dal recinto dietro di lui. Rimase sdraiato sull'erba che copriva la duna, in stato di semicoscienza. Molto tempo più tardi le torce della porta si spensero o vennero spente; restò solo il buio. Il vento che soffiava tra l'erba aveva molte voci, e dal basso sibilava il mare.
Quando la nebbia si diradò, lasciando filtrare la luce delle lune, Yahan lo trovò laggiù, vicino all'orlo della scogliera. Con il suo aiuto, Rocannon si alzò in piedi e riprese il cammino. Procedendo a tastoni, inciampando, strisciando sulle mani e sulle ginocchia dove il percorso era accidentato e indistinguibile a causa del buio, si mossero verso sudest, allontanandosi dalla costa. Si fermarono un paio di volte per prendere fiato e per orientarsi, e Rocannon cadde addormentato quasi nello stesso momento in cui si fermarono. Yahan lo svegliò e lo costrinse a camminare, finché, poco prima dell'alba, scesero in una valle riparata da una foresta scoscesa.
Nell'oscurità nebbiosa, il regno degli alberi era nero come la pece. Yahan e Rocannon vi entrarono seguendo il letto di un torrente, ma non andarono lontano.
Rocannon si fermò e disse, nella sua lingua: — Non ce la faccio più. — Yahan trovò una striscia di sabbia sotto l'argine: laggiù si sarebbero potuti nascondere, almeno rispetto a chi guardasse dall'alto; Rocannon vi entrò strisciando, come un animale che ritornasse alla tana, e dormì.
Quando si svegliò, al tramonto, quindici ore più tardi, scorse Yahan, con una piccola raccolta di germogli verdi e di radici commestibili. — È ancora troppo presto, nell'annocaldo, per trovare frutti — spiegò, lamentandosi, — e quegli zotici del Castello degli Zotici mi hanno preso l'arco. Ho messo alcune trappole, ma prima di notte non prenderò nulla.
Rocannon consumò con avidità i vegetali, e dopo essersi dissetato al torrente ed essersi sciolto i muscoli, riuscì nuovamente a ragionare. Chiese: — Yahan, come hai fatto a trovarti laggiù, al… Castello degli Zotici?
Il giovane plebeo abbassò lo sguardo e, con il piede, seppellì accuratamente nella sabbia qualche cima di radice immangiabile. — Ecco, Signore, sai che io ho… disobbedito al mio Signore Mogien. Perciò, in seguito, ho pensato che mi sarei potuto unire ai Senza Padrone.
— Perché, avevi già sentito parlare della loro esistenza?
— Da noi, a casa, si parla di luoghi dove gli Olgyior sono i padroni e i servi. Si dice anche che, nei tempi antichi, nell'Angien ci fossimo soltanto noi plebei: eravamo cacciatori e abitavamo nelle foreste; poi vennero dal sud, sulle navi-drago, gli Angyar…
«Comunque, ho trovato il forte, e gli uomini di Zgama hanno pensato che fossi fuggito da qualche località lungo la costa. Mi hanno tolto l'arco e mi hanno messo al lavoro, e nessuno mi ha fatto domande. È stato così che ti ho trovato. Ma sarei fuggito in qualsiasi caso, anche se non avessi trovato te. Tra zoticoni come quelli, non ci resterei un minuto di più, neanche se mi facessero loro capo!
— E sai dove siano i nostri compagni?
— No. Intendi andare a cercarli, Signore?
— Chiamami per nome, Yahan. Sì, anche se la possibilità di trovarli fosse minima, li cercherei lo stesso. Non possiamo attraversare da soli un continente, a piedi, senza vestiti e senza armi.
Yahan non disse nulla; per qualche tempo continuò a lisciare la sabbia con il piede, a fissare il ruscello che scorreva nell'ombra, cristallino, sotto i pesanti rami di conifera.
— Non sei d'accordo? — fece Rocannon, infine.
— Se il mio Signore Mogien mi troverà, mi ucciderà. È suo diritto.