Rocannon, avvicinandosi a lui, vide che aveva sulla faccia un'espressione insieme desolata ed esitante: — Olhor, hai di nuovo il gioiello.
— Continuo a cercare di darlo ad altri — disse Rocannon, sorridendo.
— Lassù — proseguì il Fian, — dovrai dare più che oro e pietre… Che cosa darai, Olhor, lassù nel luogo freddo, nel luogo alto, nel luogo grigio? Dal fuoco al ghiaccio…
Rocannon udiva le parole e guardava il Fian, ma non vedeva muoversi le sue labbra. Sentì un brivido che gli correva lungo la schiena; chiuse la propria mente, sfuggendo al contatto di quella strana sensazione che entrava nella sua umanità, nella sua intimità.
Dopo un minuto, Kyo si voltò, calmo e sorridente come sempre, e parlò con il suo solito tono di voce: — Oltre queste basse colline ci sono dei Fiia. Sono al di là della foresta, in vallate verdeggianti. Il mio popolo ama le valli, anche qui ama il sole e le terre basse. Troveremo i loro villaggi tra pochi giorni di volo.
Era una buona notizia, e gli altri la accolsero con gioia, quando Rocannon la riferì.
— Pensavo che non avremmo trovato alcun essere capace di parlare. Una terra così bella, così ricca e così vuota — disse Raho.
Fissando un paio di kilar simili a libellule, che volavano sul lago come ametiste alate, Mogien disse: — Non è stata sempre vuota. La mia gente l'ha attraversata molto tempo fa, negli anni che precedettero la nascita degli eroi, prima che Hendin scagliasse la grande lancia e che Kirfiel morisse sulla Collina di Orren.
«Giungemmo dal sud, a bordo di navi con la testa di drago e nell'Angien trovammo una popolazione selvaggia che si nascondeva nei boschi e nelle grotte marine, una razza dalla faccia bianca. Tu conosci la canzone, Yahan, il Lamento di Orhogien:
«Il sentiero di Lioka va da sud a nord. E le battaglie di cui si parla nel canto raccontano di come noi Angyar abbiamo sconfitto i cacciatori selvaggi, gli Olgyior, gli unici della nostra razza che abitassero nell'Angien; infatti apparteniamo a una sola razza, i Liuar.
«Ma il canto non parla di quelle montagne. È un canto molto antico; forse il suo inizio s'è perduto. O forse la mia gente veniva da queste colline. È un ottimo paese: ci sono boschi in cui si può cacciare, colline adatte al pascolo e cime per costruirvi castelli. Eppure, adesso, sembra che non ci viva alcuna razza umana…
Quella sera, Yahan non suonò la sua cetra dalle corde d'argento; nessuno di loro riuscì a dormire tranquillamente, forse perché i grifoni erano lontani e perche sulle colline aleggiava un silenzio di morte, come se nessuna creatura osasse muoversi di notte.
Poiché tutti si lamentavano che l'accampamento vicino al lago era troppo paludoso, l'indomani ripresero il cammino a piedi, procedendo senza fretta e fermandosi sovente per cacciare e raccogliere qualche vegetale. Al tramonto giunsero su una collinetta la cui cima era gibbosa e accidentata, come se l'erba crescesse sulle fondamenta di un edificio crollato. Non rimaneva niente della costruzione, ma riuscirono a individuare la corte di volo di un piccolo castello, sorto in tempi talmente remoti che perfino la leggenda se l'era dimenticato. Si accamparono laggiù, perché era un punto dove i grifoni li avrebbero scorti con facilità, al loro ritorno.
A tarda ora, durante la lunga notte, Rocannon si destò e si rizzò a sedere. Splendeva soltanto la piccola Lioka, e il fuoco era spento. Non avevano predisposto turni di guardia. Mogien era in piedi, a cinque o sei metri di distanza da lui, e non faceva alcuna mossa: alla luce delle stelle era soltanto una forma indistinta, alta.
Rocannon, ancora semiaddormentato, lo osservò, chiedendosi perche il mantello lo facesse sembrare così alto e così stretto di spalle. C'era qualcosa di strano nella sua figura. Le altre volte, il mantello dell'Angya si allargava alle spalle come il tetto di una pagoda, e anche senza mantello Mogien aveva un torace notevolmente ampio. Perché adesso sembrava tanto alto, tanto chino e magro?
La faccia si voltò lentamente verso di lui, e non era la faccia di Mogien.
— Chi è là? — chiese Rocannon, e la sua voce echeggiò nel minaccioso silenzio. Al suo fianco, anche Raho si rizzò a sedere, si guardò attorno, afferrò l'arco e si alzò in piedi. Dietro l'alta figura, qualcosa si mosse leggermente… un'altra sagoma identica alla precedente. Tutt'intorno a loro, in mezzo alle rovine coperte d'erba e illuminate dalle stelle, stavano le alte forme magre e silenziose, pesantemente ammantellate, con la testa china. Accanto al fuoco erano rimasti soltanto Rocannon e Raho.
— Signore Mogien! — gridò Raho.
Non ci fu risposta.
— Dov'è Mogien? A che popolo appartenete? Parlate…
Non ci fu risposta neanche adesso, e le figure cominciarono ad avvicinarsi lentamente. Raho incoccò una freccia. Sempre tacendo, tutte insieme, all'improvviso le figure parvero gonfiarsi in modo strano, i mantelli si spalancarono da entrambe le parti: attaccarono subito da tutte le direzioni, con lenti, agili balzi.
Combattendo contro quegli esseri, Rocannon combatteva anche per liberarsi dal sogno… doveva essere un sogno; la loro lentezza, il loro silenzio, tutto di loro sembrava irreale, ed egli non sentiva i loro colpi. Ma questo perché indossava la tuta. Udì Raho gridare disperatamente: — Mogien! — Gli assalitori avevano buttato a terra Rocannon grazie, semplicemente, al peso e al numero; poi, prima che potesse liberarsi, egli si sentì sollevare per i piedi, con un movimento largo, da capogiro. Mentre si contorceva, cercando di liberarsi dalle numerose mani che lo stringevano, scorse colline e boschi illuminati dalla luce delle stelle roteare sotto di lui., molto al di sotto di lui. Si sentì girare la testa, e istintivamente si aggrappò con entrambe le mani alle membra sottili delle creature che lo sollevavano. Gli stavano tutt'intorno, lo stringevano con le loro mani, e l'aria era piena di ali nere che battevano.
Continuò così per lungo tempo, e a tratti dovette lottare per svegliarsi da quella monotonia di paura, di voci sottili che sibilavano intorno a lui, di molteplici battiti d'ali che faticosamente lo trasportavano sempre in avanti, sobbalzando.
Poi, all'improvviso, il volo si trasformò in una lunga discesa. L'oriente che andava illuminandosi scivolò orribilmente al suo fianco, la terra si alzò davanti a lui. le numerose mani, forti e morbide, che lo stringevano si aprirono, ed egli cadde. Illeso, ma troppo sofferente e stordito per rizzarsi a sedere, giacque al suolo e si guardò intorno. Sotto di lui c'era un pavimento di lastre lisce come se fossero state tagliate nell'acciaio. Dietro di lui sorgeva la vasta cupola di un edificio, e davanti, al di là di una porta senza architrave, vide una strada fiancheggiata da case argentee senza finestre, perfettamente allineate, tutte identiche: una pura prospettiva geometrica illuminata dal chiarore dell'alba senza nubi. Era una vera città, non un villaggio dell'Età del Bronzo, ma una grande città, severa e grandiosa, possente e precisa, prodotta da una grande tecnologia. Rocannon si rizzò a sedere, con la testa che gli girava.
Quando la luce aumentò, Rocannon riuscì a distinguere alcune forme nella semioscurità del cortile, fagotti o qualcosa di simile; l'estremità di uno di essi era gialla lucente. Con una scossa che ruppe il suo stato di sogno ad occhi aperti vide la faccia bruna sotto la macchia di capelli gialli. Era Mogien, con gli occhi spalancati che fissavano il ciclo, senza battere le palpebre.
Tutt'e quattro i suoi compagni giacevano a terra come Mogien: rigidi e con gli occhi aperti. La faccia di Raho era orrendamente distorta. Perfino Kyo, che nella sua fragilità era parso inattaccabile, giaceva immobile e i suoi grandi occhi riflettevano il chiarore del ciclo.