Eppure respiravano, con respiri lunghi e tranquilli, molto distanziati tra loro; Rocannon accostò l'orecchio al petto di Mogien e udì il battito fioco e lento del cuore, come se lo udisse da una grande distanza.
Un sibilo improvviso proveniente dall'alto lo fece istintivamente acquattare al suolo, dove cercò di rimanere immobile come i corpi paralizzati che lo circondavano. Si sentì afferrare alle braccia e alle gambe. Lo fecero girare su se stesso, vide una faccia china su di lui: una faccia grande, allungata, bruna e bellissima. Sulla pelle scura della testa non spuntava un solo capello, mancavano anche le sopracciglia. Occhi color d'oro chiaro fissavano da palpebre prive di ciglia. La bocca, piccola e delicatamente modellata, era chiusa. Le mani morbide e robuste gli strinsero le mascelle, costringendolo ad aprire la bocca. Un'altra di quelle alte forme si chinò su di lui, ed egli tossì, semisoffocato dal liquido che gli venne versato in bocca: acqua tiepida, puzzolente e stantia.
I due grandi esseri lo lasciarono. Egli balzò in piedi, sputando l'acqua, e disse: — Sto benissimo, lasciatemi stare! — Ma le creature gli avevano già voltato le spalle. Erano chini su Yahan: uno gli apriva a forza le labbra, l'altro gli versava nella bocca una piccola quantità d'acqua, servendosi di un vaso lungo e argenteo.
Erano molto alti, molto snelli. Semi-umanoidi; robusti e delicati, si muovevano con una certa goffaggine e con una certa lentezza sul terreno, che non era il loro elemento naturale. Il petto relativamente stretto si sporgeva in avanti, tra i muscoli delle spalle che muovevano le ali lunghe e morbide. Le ali, con una dolce curva, scendevano dalle spalle come cappe grige. Le gambe erano sottili e corte, e la nobile testa scura sembrava china in avanti perché le ali sporgevano al di sopra di essa.
Il Manuale di Rocannon giaceva sotto le acque nebbiose del canale, ma ora gli tornò alla memoria: «Forme di vita a intelligenza elevata; specie non confermata N. 4; grandi umanoidi, abitanti in città estese.» E proprio a lui toccava la fortuna di confermarne l'esistenza, di vedere per primo una nuova specie, una nuova grande cultura, un possibile membro della Lega. La pura, precisa bellezza degli edifici, la carità impersonale delle due grandi figure angeliche che portavano acqua, il loro regale silenzio, tutto questo lo metteva in profonda soggezione. Non aveva mai visto una razza come quella, in nessun mondo.
Si avvicinò alla coppia di creature, che in quel momento dava l'acqua a Kyo, e domandò in tono cortese, con un po' di diffidenza: — Parlate la Lingua Comune, alati Signori?
Le due figure non gli diedero retta. Si accostarono tranquillamente a Raho, con il loro passo leggero e un poco claudicante, e versarono a forza un po' d'acqua fra le sue labbra contorte. L'acqua colò fuori, scivolando sulle sue guance.
Passarono a occuparsi di Mogien, e Rocannon le seguì. — Ascoltatemi! — disse, ponendosi davanti a loro, ma subito si fermò, colpito da un pensiero sconvolgente. Forse i grandi occhi dorati di quelle creature non vedevano: forse erano cieche e sorde. Infatti non gli risposero, non lo degnarono di uno sguardo, non fecero altro che allontanarsi, alte, aeree, avvolte da capo a piedi nelle ali simili a soffici mantelli. E la porta si chiuse lentamente alle loro spalle.
Riprendendosi da tutte quelle emozioni, Rocannon si recò da ciascuno dei suoi compagni, sperando che le creature alate avessero somministrato qualche antidoto contro la paralisi. Ma non riscontrò alcun cambiamento. Come prima, respiravano lentamente e avevano un battito lentissimo: tutti i suoi compagni meno uno. Il petto di Raho era immobile, e la sua faccia penosamente contorta era fredda. L'acqua che gli avevano dato gli umidiva ancora le guance.
Lo stupore reverenziale di Rocannon lasciò il posto a una fredda collera. Perché gli Uomini Angelo trattavano lui e i suoi compagni come animali selvaggi catturati?
Si allontanò dai compagni e attraversò il cortile, dirigendosi verso la porta senza architrave e poi nelle strade di quella città incredibile.
Niente si muoveva. Tutte le porte erano chiuse. Alte e prive di finestre, una dopo l'altra, le facciate argentee si ergevano silenziose, illuminate dalla prima luce del mattino.
Rocannon contò sei incroci prima di giungere alla fine della strada, costituita da un muro. Era alto cinque metri e si stendeva da entrambi i lati senza interruzioni. Rocannon pensò per un momento di seguire la strada di circonvallazione, ai piedi di quell'altra parete, per cercare una porta d'ingresso alla città, ma poi scartò quella ipotesi, perché era poco probabile che ci fosse una porta. Le creature alate non hanno bisogno di porte d'accesso alle loro città.
Ripercorrendo la strada radiale da cui era giunto, ritornò verso l'edificio centrale: l'unica costruzione della città che differisse, sia come forma, sia come altezza, dalle alte case argentee disposte in file geometriche. Rientrò nel cortile. Ogni casa era chiusa, le strade erano pulite e deserte, il cielo era vuoto, non c'era altro rumore che quello dei suoi passi.
Bussò alla porta che si trovava in fondo al cortile. Non ebbe risposta. Provò a spingere, e la porta si spalancò.
L'interno era caldo e buio, si udivano sibili e brusii, si aveva l'impressione di una grande altezza, di una notevole ampiezza. Un'alta figura si mosse verso di lui, poi si fermò e rimase immobile. Colpito dal raggio di sole che penetrava dalla porta che Rocannon aveva lasciato leggermente aperta, l'essere alato chiuse gli occhi e li riaprì lentamente. La luce solare lo accecava. Volavano nel ciclo e camminavano lungo le loro strade, fra le case argentee soltanto dopo il tramonto.
Fissando gli occhi insondabili della creatura alata, Rocannon non assunse l'atteggiamento che gli etnologi chiamavano «I.C.T.», ossia Inizio di Comunicazioni Tuttofare: una posa incoraggiante e sicura di sé, e domandò in Galattico: — Chi è il vostro capo?
Pronunciata con solennità, di solito questa domanda otteneva una risposta. Ma questa volta non ebbe alcun risultato. La creatura alata fissò Rocannon, batte ancora le palpebre con imperturbabilità e distacco, chiuse definitivamente gli occhi e rimase immobile, in quello che non poteva essere altro che un sonno profondo.
Gli occhi di Rocannon si erano abituati alla semioscurità, cosicché poté adesso scorgere, nel caldo buio, sotto il soffitto, file, capannelli e gruppetti di figure alate. Centinaia di figure, immobili con gli occhi chiusi.
Passò in mezzo a loro, ed esse non si mossero.
Molto tempo prima, sul suo pianeta natale Davenant, Rocannon era stato in un musco pieno di statue: un bambino che col naso in aria osservava le facce immobili degli antichi dèi degli Hainiti.
Facendo appello a tutto il suo coraggio, si avvicinò a uno di quegli esseri e lo toccò (o la toccò? Chissà, magari erano femmine) sul braccio. Gli occhi dorati si spalancarono, la faccia bellissima si voltò verso di lui, ancora più scura in quella luce crepuscolare. — Hassa! — disse l'Uomo Alato, e, chinandosi rapidamente verso di lui, gli baciò la spalla. Poi fece tre passi indietro, si riavvolse nella cappa delle ali e ritornò immobile, con gli occhi chiusi.
Rocannon proseguì il suo cammino, avanzando a tastoni nell'oscurità tranquilla e dolce della grande stanza, finché non incontrò una seconda porta, alta dal pavimento al soffitto. La zona al di là della porta era leggermente più chiara, poiché minuscoli fori praticati nel soffitto permettevano a una spolverata di luce color dell'oro di filtrare l'ino al pavimento.
Ai due lati di Rocannon, le pareti si curvavano; in alto formavano una volta arcuata. Sembrava un corridoio circolare costruito intorno alla cupola centrale, cuore della città. La parete interna era mirabilmente decorata con un motivo di triangoli ed esagoni che s'intersecavano, e questa decorazione saliva fino al soffitto. In Rocannon si ridestarono l'entusiasmo e le perplessità dell'etnologo. Quella gente era maestra nell'arte di costruire. In tutto il vasto edificio, ogni superficie era perfettamente levigata, e ogni incastro era eseguito con precisione; la concezione era grandiosa, l'esecuzione non aveva difetti.