Solo una cultura superiore poteva arrivare a risultati simili. Ma egli non aveva mai incontrato una razza dotata di elevata cultura che mostrasse una simile mancanza di interesse. In fin dei conti, perché avevano portato laggiù lui e i suoi compagni? Forse, nella loro muta e angelica arroganza, avevano voluto salvare i viaggiatori da qualche pericolo della notte? O riducevano in schiavitù le altre razze? Se così era, perché non avevano preso alcun provvedimento, accorgendosi che lui era immune al loro veleno paralizzante?
Forse comunicavano senza parole, ma, in quell'incredibile palazzo, egli era portato a credere che la spiegazione fosse data da un'intelligenza che, semplicemente, era al di fuori degli interessi umani. Proseguì, e infine trovò sulla parete interna del corridoio una terza porta, molto bassa, che lo costrinse a chinare la testa per passare: un Uomo Alato avrebbe dovuto strisciare al suolo, per entrare.
All'interno c'erano la solita semioscurità calda e giallastra, e un odore dolce leggermente fastidioso, ma si udivano innumerevoli brusii, mormorii, sussurri di voci attutite, movimenti di corpi, strascico d'ali. L'occhio della cupola, molto, molto in alto, era dorato. Una lunga rampa, costruita sulla parete interna dell'edificio, saliva a spirale, con una dolce inclinazione, fino al tamburo della cupola. Qua e là, sulla rampa, si scorgeva qualche movimento; un paio di volte una figura, che dal basso sembrava minuscola, allargò le ali per volare silenziosamente da un lato all'altro del grande cilindro d'aria dorata e polverosa.
Rocannon si avviò verso l'inizio della rampa, e mentre attraversava l'enorme spazio, qualcosa cadde da un punto indeterminato sopra di lui, a circa metà altezza, e toccò terra con uno schianto. Rocannon passò accanto all'oggetto: era il corpo di uno degli Alati. Sebbene l'urto gli avesse frantumato il cranio, non si vedeva sangue. Il corpo era più piccolo di quelli che Rocannon aveva visto fino a quel momento: le ali, a quanto gli parve, non erano del tutto formate.
Proseguì ostinatamente e cominciò a salire la rampa.
A una decina di metri dal suolo giunse a una nicchia triangolare scavata nel muro, in cui erano accovacciati numerosi Alati. Anche questi avevano una taglia inferiore al normale, e le loro ali non erano ben tese. Li contò: erano in nove, disposti a gruppetti uguali di tre, tre, tre, a regolare distanza tra loro, e stavano intorno a una grande massa pallida. Rocannon dovette osservarla a lungo, prima di riconoscere un muso e due occhi spalancati e vacui. Era un destriero del vento, vivo, paralizzato. Le piccole bocche delicatamente modellate dei nove Alati si piegavano ripetutamente su di esso, baciandolo, baciandolo…
Un altro tonfo sul pavimento della sala, di fronte a lui: Rocannon gli rivolse soltanto un'occhiata, mentre scappava via di corsa. Era il corpo rinsecchito e dissanguato di un barilo.
Oltrepassò il passaggio anulare, alto e decorato, e si fece strada, con tutta la rapidità e con tutto il silenzio possibili, in mezzo alle figure che dormivano in piedi nella sala. Uscì nel cortile. Era vuoto. Il pavimento era illuminato dal sole già alto. I suoi compagni erano scomparsi. Li avevano portati via per darli alle larve che laggiù, nella grande sala a cupola, li avrebbero succhiati vivi.
CAPITOLO SETTIMO
Rocannon sentì piegarsi le ginocchia. Si sedette sul lucido pavimento e cercò di frenare la sua cieca paura quel tanto che bastava per pensare al da farsi. Doveva ritornare nella cupola per portare via Mogien, Yahan e Kyo. Al pensiero di ritornare laggiù, fra le alte e angeliche figure le cui nobili teste ospitavano cervelli degenerati o specializzati al livello degli insetti, si sentì attraversare la schiena da un brivido; ma doveva farlo. I suoi amici erano là dentro, ed egli doveva portarli via. Le larve e le loro balie, nella cupola, erano abbastanza addormentate da permettergli di farlo? Smise di farsi domande. Per prima cosa doveva fare il giro completo del muro perimetrale, perché se non ci fosse stata una porta, il suo lavoro sarebbe stato inutile. Non avrebbe potuto trasportare i suoi amici al di là di un muro alto cinque metri.
C'erano probabilmente tre caste, pensò, mentre percorreva la strada perfetta e silenziosa. Balie per le larve della cupola, costruttori e cacciatori nelle stanze intorno alla cupola stessa, e, nelle case lungo le vie, gli individui fertili, che deponevano e covavano le uova. I due esseri che avevano portato l'acqua appartenevano probabilmente alla casta delle balie, e dovevano mantenere in vita le prede paralizzate in attesa che le larve le succhiassero. Avevano dato acqua anche a Raho, che era morto. Come aveva fatto, a non accorgersi che erano prive di intelligenza? Si era convinto che fossero intelligenti perché avevano un'aria così umana e angelica. Cancella pure la specie N. 4, pensò, indispettito, all'indirizzo del suo Manuale naufragato. E proprio in quel momento, una creatura attraversò rapidamente la strada, all'altezza dell'incrocio successivo: una forma bassa e bruna, impossibile capire se grossa o piccola, in quella irreale geometria di case tutte uguali. Chiaramente non faceva parte della città. Almeno, gli insetti-angelo avevano dei parassiti che infestavano il loro bell'alveare. Avanzò rapidamente nel profondo silenzio, raggiunse il muro di cinta e voltò a sinistra, lungo di esso.
Poco davanti a lui, vicino alla base argentea e senza commessure del muro, era rannicchiato uno degli animali bruni. Sulle quattro zampe giungeva a malapena al ginocchio di Rocannon. A differenza della maggior parte degli animali non intelligenti del pianeta, non aveva ali. Cercava di nascondersi contro la base del muro, sembrava decisamente spaventato, e Rocannon si limitò a girargli attorno, per non allarmarlo, con il rischio che lo assalisse, e proseguì per la sua strada. Nel tratto che poteva scorgere dal punto in cui si trovava, sull'alto muro curvo, non c'erano porte.
— Signore! — chiamò una vocina da un punto indeterminato. — Signore!
— Kyo! — esclamò Rocannon, voltandosi. La sua voce rimbalzò sulle pareti. Nulla si mosse. Pareti bianche, ombre nere, linee rette, silenzio.
Il piccolo animale bruno veniva verso di lui, saltellando. — Signore — gridò con voce esile, — Signore, vieni, vieni. Oh, vieni, Signore!
Rocannon si fermò stupefatto. La piccola creatura si accovacciò sulle robuste gambe posteriori, ponendosi davanti a lui. Ansimava, e i battiti del cuore gli facevano sobbalzare il petto coperto di pelo. Minuscole mani nere, incrociate sul torace. Occhi scuri, atterriti, che lo guardavano. Ripeté con voce tremula, in Lingua Comune: — Signore…
Rocannon si inginocchiò davanti a lui. Pensò rapidamente a come comportarsi con quella creatura, e infine disse, molto gentilmente: — Non so come chiamarti.
— Oh, vieni — disse la piccola creatura, tremando. — Signori… Signori. Vieni!
— Gli altri signori, i miei amici?
— Amici — disse la creatura bruna. — Amici. Castello. Signori, castello, fuoco, destriero, giorno, notte, fuoco. Oh, vieni!
— Vengo — disse Rocannon.
La creatura si allontanò immediatamente, saltellando, e Rocannon la seguì. Si diresse lungo la strada radiale, poi voltò in una via laterale, a nord, e infine entrò in una delle dodici porte che davano accesso alla cupola. E al di là di quella porta, sul pavimento di piastrelle levigate, Rocannon scorse i suoi quattro compagni, esattamente come li aveva lasciati. Più tardi, quando ebbe tempo di pensare all'intera vicenda, capì che quando era uscito dalla cupola era entrato in un cortile diverso, e per questo motivo non aveva più trovato i compagni.