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Partito Mogien, Yahan, che giaceva in stato di semincoscienza, domandò acqua. La borraccia era vuota. Rocannon gli disse di non muoversi, e si arrampicò sulle rocce, fino a una sporgenza riparata dai massi, a una quindicina di metri di distanza, dove aveva visto alcuni mucchi di neve. L'ascesa risultò più difficile del previsto, ed egli si sdraiò sulla sporgenza per riprendere il fiato, in quell'aria sottile, con il cuore che gli pulsava forte.

Udiva un rumore che dapprima gli parve la pulsazione del suo stesso sangue; poi, accanto alla sua mano, vide scorrere un rigagnolo d'acqua. Si rizzò a sedere. Alla base di un mucchio di neve, in un punto ombreggiato, scorreva un filo d'acqua, avvolto in una scia di vapore.

Cercò l'origine di quel rigagnolo, e vide un'apertura tra i massi: una caverna. Una caverna era la loro migliore speranza di riparo, gli diceva la parte razionale della sua mente, ma questa parte era soltanto una particella minuscola, rispetto a un'oscura, irrazionale irruzione di sensazioni… di panico. Rimase a sedere immobile, in preda al peggior attacco di paura che avesse mai provato.

Tutt'intorno a lui, sulla roccia grigia, splendeva la luce del sole, senza riscaldarla. Le cime dei monti erano celate dietro i pendii più vicini, e le regioni sottostanti, a sud, erano nascoste dietro uno strato di nubi. Lassù, su quel nudo e grigio spartiacque del mondo, c'erano soltanto lui e un'apertura buia, fra i massi.

Dopo molto tempo, egli si alzò in piedi, avanzò al di là del rivoletto, e parlò alla presenza che, come egli sapeva, attendeva in quell'apertura piena d'ombra. — Sono venuto — disse.

L'oscurità si mosse leggermente, e l'abitante della caverna si fermò sulla soglia.

Era simile al Popolo dell'Argilla, pallido e basso di statura; come i Fiia era snello e aveva gli occhi chiari; era simile a entrambi, e non era simile a nessuno dei due. I suoi capelli erano bianchi. La sua voce non era una voce, perché parlava nella mente di Rocannon, il quale, con gli orecchi, udiva soltanto il debole soffio del vento; e non parlava con parole. Eppure gli domandò che cosa cercasse.

— Non lo so — disse forte l'uomo, Impaurito; ma la sua volontà ostinata rispose per lui: Voglio andare a sud e trovare i miei nemici per distruggerli.

Il vento soffiava fischiando; il rigagnolo caldo mormorava ai suoi piedi. Muovendosi lentamente e con passo leggero, l'abitante della caverna si fece da parte, e Rocannon, curvandosi, entrò nell'oscurità.

Che cosa intendi dare per ciò che ti ho dato?

Che cosa devo dare, Antico?

La cosa che hai più cara e che meno facilmente daresti di tua volontà.

Su questo mondo non ho niente di mio. Che cosa posso dare?

Una cosa, una vita, una possibilità; un occhio, una speranza, un ritorno: non è necessario che si sappia il nome. Ma tu griderai forte il suo nome quando l'avrai perduta. La dai liberamente?

Liberamente, Antico.

Silenzio interrotto soltanto dal soffio del vento. Rocannon curvò la testa e uscì dall'oscurità. Quando raddrizzò la schiena, una luce rossa gli colpì dolorosamente gli occhi: un'alba fredda e rossastra su un mare grigio e scarlatto di nubi.

Sulla sporgenza più bassa dormivano Mogien e Yahan, raggomitolati insieme: un mucchio di pellicce e di mantelli, che non si scosse quando Rocannon scese fino a loro. — Sveglia — disse, piano. Yahan si rizzò a sedere, con uno sguardo stordito, infantile sotto la luce rossa dell'alba.

— Olhor! Pensavamo… Non c'eri più… pensavamo che fossi caduto…

Mogien scosse la testa dai capelli biondi per liberarsi dal sonno, e per un lunghissimo istante fissò Rocannon. Poi disse gentilmente, con voce roca: — Benvenuto, Signore delle Stelle, compagno. Ti abbiamo atteso qui.

— Ho trovato… Ho parlato con…

Mogien alzò la mano. — Sei ritornato; io mi rallegro del tuo ritorno. Andiamo verso sud?

— Sì.

— Bene — disse Mogien. In quel momento non parve affatto strano a Rocannon che Mogien, che fin dalla partenza si era comportato come il capo del gruppo, si rivolgesse a lui come un Signore di grado inferiore si rivolge a uno di alto rango.

Mogien soffiò nel fischietto, ma anche se attesero a lungo, i destrieri non comparvero. Consumarono gli ultimi rimasugli del pane duro e nutriente dei Fiia, e ripartirono a piedi. Il calore della tuta aveva rinvigorito Yahan, e Rocannon insistette perché continuasse a indossarla. Il giovane avrebbe avuto bisogno di cibo e di un vero riposo per riprendere le forze, ma era in grado di procedere, e, soprattutto, non potevano fermarsi lassù: il rosso dell'alba preannunciava il cattivo tempo.

La discesa non era pericolosa, ma era lenta e faticosa. A metà mattino comparve uno dei grifoni: il grigio di Mogien proveniente dalle foreste della lontana pianura. Lo caricarono con le selle, i finimenti e le pellicce (non avevano portato altro con sé: avevano dovuto abbandonare il resto dell'equipaggiamento), e l'animale continuò a volare intorno a loro a suo piacere, di tanto in tanto miagolando per chiamare il compagno dal manto a strisce, che stava ancora cacciando o nutrendosi nelle foreste.

Verso mezzogiorno giunsero a un passaggio difficile: una parete verticale che si innalzava come uno scudo, e che avrebbero dovuto discendere in cordata. — Dall'aria potresti trovare un percorso più facile, Mogien — suggerì Rocannon. — Vorrei che tornasse anche l'altro grifone. — Sentiva che doveva fare presto; voleva lasciare quanto prima la montagna grigia e nuda, per nascondersi tra gli alberi.

— Quell'animale era esausto, quando l'abbiamo lasciato libero; può darsi che non sia ancora riuscito a catturare una preda. Quello che è tornato ha portato un carico più leggero, sul passo. Vado a controllare la larghezza di questa parete. Forse l'animale che abbiamo ci potrà portare tutti e tre, per un breve tratto.

Soffiò nel fischietto, e il grifone grigio, con quella fedele obbedienza che non mancava di stupire Rocannon in bestie così grandi e così carnivore, fece una curva nell'aria e venne a posarsi con grazia sulla sporgenza dove erano fermi i tre uomini. Mogien salì in sella e partì con un grido, e i suoi capelli biondi colsero l'ultimo raggio di sole che riusciva a superare i banchi di nuvole sempre più densi.

Il vento gelido continuava a soffiare. Yahan andò a raggomitolarsi al riparo di una roccia e chiuse gli occhi. Rocannon sedette sulla roccia, con lo sguardo perso nella distanza, ai cui estremi confini si poteva scorgere lo splendore del mare. Non osservò l'immenso, vago paesaggio che compariva a tratti fra le nubi mosse dal vento, ma fissava un unico punto a sudest, un solo luogo. Chiuse gli occhi, e ascoltò. E udì.

Era uno strano dono, quello che aveva ricevuto dall'abitante della caverna, il guardiano della sorgente calda, sulla montagna senza nome. Un dono che non avrebbe mai osato chiedere. Laggiù nell'oscurità, accanto alla profonda sorgente calda, gli era stata insegnata un'arte dei sensi che la sua razza, e gli uomini della Terra, avevano incontrato e studiato in altre razze, ma verso la quale erano ciechi e sordi, salvo qualche breve visione e qualche rara eccezione. Per restare fedele alla propria umanità, Rocannon non aveva voluto accettare la totalità del potere che il guardiano della fonte possedeva e offriva. Egli aveva imparato ad ascoltare la mente di una sola razza, di un solo tipo di creature; una sola voce fra tutte le voci dell'universo: quella dei suoi nemici.

Con Kyo aveva sperimentato una forma elementare di linguaggio mentale, ma non desiderava conoscere la mente dei compagni, se i compagni non potevano leggere la sua. La comprensione doveva essere reciproca, se la fiducia e l'amicizia lo erano.

Ma quando si trattava di coloro che avevano ucciso i suoi amici e che avevano spezzato il vincolo della pace, egli era disposto a spiare nelle loro menti, a origliare i loro pensieri. Seduto su una sporgenza di granito, su una montagna senza sentieri, adesso Rocannon ascoltava i pensieri di uomini che si trovavano in edifici circondati da basse colline, migliaia di metri al di sotto della sua altitudine, a cento chilometri di distanza. Chiacchiere confuse, ronzii, mormoni, un remoto agitarsi di sensazioni ed emozioni tempestose.