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Non sapeva ancora come distinguere una voce dall'altra, ed era stordito da cento diversi luoghi, cento diverse posizioni: ascoltava come i bambini in fasce, senza capacità di discriminazione. Coloro che nascono con occhi e orecchi devono imparare a vedere e ad ascoltare, e distinguere una faccia in mezzo alle duplici immagini, una per occhio, che gli giungono da un mondo in cui il «sopra» e il «sotto» sono invertiti, a scegliere un significato in mezzo a una confusione di rumori. Il guardiano della fonte aveva un dono di cui Rocannon aveva sentito parlare una sola volta, su un pianeta lontano: quello di dischiudere il senso della telepatia. Aveva insegnato a Rocannon come limitarlo e come dirigerlo, ma Rocannon non aveva avuto il tempo di imparare a usarlo, di fare esercizio.

Rocannon si sentiva girare la testa sotto gli urti dei pensieri estranei, come se mille sconosciuti si fossero affollati nel suo cranio. Ma non gli giungevano parole. Il termine che gli Angyar (i quali però non ne disponevano) usavano per definire quel nuovo senso era «ascoltare con la mente». Ma ciò che Rocannon «ascoltava» non erano le parole, bensì le intenzioni, i desideri, le emozioni, le collocazioni nello spazio e le direzioni sensoriali-mentali di molti uomini diversi; tutto ciò si accalcava e si sovrapponeva nel suo sistema nervoso: terribili ventate di paura e di invidia, soffi di soddisfazione, abissi di sonno, una tormentosa e selvaggia vertigine di mezze comprensioni e mezze sensazioni.

E poi, all'improvviso, emerse dal caos qualcosa di assolutamente chiaro, un contatto più netto di quello di una mano posata sulla sua pelle nuda. Qualcuno stava venendo verso di lui, un uomo che con la mente aveva percepito la mente di Rocannon. Insieme a questa certezza, impressioni minori: velocità, un luogo chiuso, curiosità e paura.

Rocannon aprì gli occhi, fissando innanzi a sé, come se cercasse di scorgere la faccia dell'uomo di cui aveva percepito l'esistenza. Era vicino; Rocannon ne era sicuro: era vicino e si stava avvicinando. Ma si vedeva soltanto la massa di nubi che si addensava. Alcuni fiocchi di neve, piccoli e asciutti, volteggiavano nel vento. Alla sua sinistra giganteggiava la grande massa di roccia che bloccava il loro cammino. Yahan si era messo al suo fianco, e lo guardava con aria terrorizzata. Ma Rocannon non riusciva a parlargli, perché la presenza lontana lo tormentava, e non poteva interrompere il contatto.

— C'è… c'è una nave dell'aria — mormorò con voce roca, come parlando nel sonno. — Laggiù!

Indicò un punto dove non c'era nulla: cielo, nubi.

— Laggiù — ripeté.

Yahan, guardando nuovamente nel punto indicato da Rocannon, gridò. Mogien, sul grifone grigio, si lasciava trasportare dal vento, a una certa distanza dalle rocce; dietro di lui, da un cumulo di nuvole, era comparsa improvvisamente una forma nera che sembrava sospesa nell'aria. Mogien volava senza accorgersi della sua presenza, perché osservava il fianco della montagna, alla ricerca dei compagni: due piccole figure su una sporgenza di roccia, in mezzo a un deserto di rocce e di nubi.

La forma nera divenne più grande, si avvicinò ancora. Le eliche martellavano l'aria vagamente, ma percepì chiaramente le emozioni dell'uomo al suo interno, il contatto senza comprensione di una mente con l'altra, l'intensa paura che diventava sfida.

— Mettiti al riparo — mormorò a Yahan, ma non riuscì a muoversi. L'elicottero saliva ondeggiando, con le pale coperte da brandelli di nubi sfilacciate. Mentre lo vedeva avvicinarsi, Rocannon vedeva anche la scena che si apriva davanti agli occhi del pilota: gli sembrava di essere dentro l'elicottero, alla ricerca di qualcosa di cui ignorava l'identità, e di vedere due piccole figure sul fianco della montagna, di avere paura, paura…

Un lampo, una scossa di dolore bruciante, dolore nella propria carne, insopportabile. Il contatto mentale si spezzò, svanì completamente. Rocannon era di nuovo se stesso, fermo sulla sporgenza di roccia, con la mano destra premuta contro il petto, ansimante, che guardava inerme l'elicottero avvicinarsi sempre più, le pale che giravano con un secco rumore, l'estremità della carlinga, armata di laser, puntata contro di lui.

Dalla destra, dall'abisso di nuvole, giunse come una freccia una bestia grigia alata, montata da un uomo che gridava con una voce simile a un'alta, trionfale risata. Un battitto delle grandi ali grige spinse in avanti destriero e cavaliere, direttamente contro la macchina sospesa nell'aria, a piena velocità, testa in avanti. Ci fu un suono lacerante, come l'inizio di un grande urlo, e poi il cielo rimase vuoto.

I due uomini sulla sporgenza si affacciarono a guardare, attoniti. Dal basso non giunse nessun rumore. Le nubi coprivano l'abisso, vagavano sopra di esso.

— Mogien!

Rocannon gridò forte quel nome. Non ci fu risposta. Ci furono solo dolore, paura e silenzio.

CAPITOLO NONO

La pioggia batteva su un tetto di legno. L'interno della stanza era scuro e limpido.

Accanto al suo letto c'era un viso di donna che Rocannon conosceva: un viso orgoglioso, gentile, bruno, coronato d'una chioma d'oro.

Doveva dirle che Mogien era morto, ma non riusciva a trovare le parole. Poi si rilassò, dolorosamente perplesso, perché si era ricordato che Haldre di Hallan era una donna anziana, con i capelli bianchi; la donna dai capelli d'oro che egli aveva conosciuto era morta da lungo tempo; inoltre l'aveva vista una volta sola, su un pianeta a otto anni luce di distanza, molti anni prima, quando egli era un uomo chiamato Rocannon.

Cercò ancora di parlare. La donna lo lece tacere, dicendo in Lingua Comune, con qualche differenza di pronuncia: — Stai quieto, mio Signore.

Rimase accanto a lui, e infine gli disse con voce dolce: — Questo è il Castello di Breygna. Sei giunto qui con un altro uomo, sotto la neve, dalla cima delle montagne. Eri quasi in fin di vita, e sei ancora malato. Ci sarà tempo…

E ci fu davvero molto tempo, che scivolò via tranquillamente, in modo vago, scandito dal rumore della pioggia.

Il giorno seguente, o forse due giorni più tardi, Yahan si recò a trovarlo. Era molto magro, zoppicava, aveva la faccia segnata dal congelamento. Ma meno comprensibile era uno strano cambiamento nel suo modo di comportarsi, che era umile e sottomesso. Dopo avere parlato un poco con lui, Rocannon chiese, a disagio: — Hai paura di me, Yahan?

— Cercherò di non averla, Signore — balbettò il giovane.

Quando Rocannon fu in grado di scendere nella Sala dei Banchetti del castello, lo stesso timore reverenziale era dipinto su tutte le facce che si volgevano verso di luì, anche se si trattava di persone coraggiose e socievoli. Era una razza dai capelli d'oro, dalla pelle bruna, alta di statura: il vecchio ceppo di cui gli Angyar erano soltanto una tribù che molto tempo prima si era avventurata a nord per via di mare; erano i Liuar, i Signori del Mondo, che da tempi tanto remoti da essersi ormai persi nella memoria di ogni razza, abitavano laggiù, ai piedi delle montagne, e nelle pianure ondulate che si stendevano a sud.

Dapprima Rocannon pensò che avessero semplicemente soggezione del suo aspetto diverso dal loro: capelli scuri e la pelle chiara; ma Yahan era fisicamente simile a Rocannon, e nessuno aveva paura di lui. Trattavano Yahan da pari a pari, come un Signore, e il fatto rallegrava e sconcertava insieme l'ex servitore di Hallan. Ma Rocannon veniva trattato come un Signore superiore a tutti gli altri, come un essere particolare.