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Avrebbe voluto aggiungere: «Lasciatemi un paio di ore per allontanarmi», ma preferì non farlo. Se l'avessero catturato mentre si stava allontanando, i faradayani si sarebbero messi in allarme e avrebbero spostato le navi. Spense il trasmettitore, rimise le coordinate sulla posizione precedente.

Mentre si faceva strada lungo le passerelle, negli immensi corridoi, controllò nuovamente la situazione sulla nave accanto. I due giocatori si erano alzati e gironzolavano per la cabina. Si mise a correre, solo nelle stanze e nei corridoi incomprensibili e semibui. A un certo punto pensò di avere sbagliato strada, ma presto giunse allo sportello, scese lungo la passerella e si precipitò di corsa all'esterno, superando l'interminabile lunghezza della nave, poi quella della nave successiva, e tuffandosi infine nell'oscurità della foresta.

Raggiunti gli alberi non riuscì più a correre, perché il respiro gli bruciava nel petto, e i rami scuri non lasciavano penetrare i raggi delle lune. Procedette con tutta la velocità di cui fu capace, rifacendo il cammino intorno alla periferia della base, ai limiti del campo d'atterraggio, e poi ripercorrendo la strada per cui era giunto, aiutato prima dalla fase luminosa di Heliki, e dopo un'ora da Feni che sorgeva.

Gli pareva di non riuscire ad avanzare nel territorio immerso nell'oscurità, e sapeva di avere poco tempo. Se avessero bombardato la base mentre lui era ancora così vicino, l'onda d'urto o la tempesta di fuoco l'avrebbero ucciso: lottò per procedere nell'oscurità, con la paura irrefrenabile della luce che poteva irrompere alle sue spalle per distruggerlo. Ma perché non arrivavano, perché erano così lenti ad agire?

Non era ancora spuntato il giorno allorché giunse alla collinetta della doppia cima, dietro cui aveva lasciato il suo destriero. L'animale, offeso perché era rimasto legato per tutta la notte in un buon territorio di caccia, ringhiò contro di lui. Rocannon si appoggiò contro la sua calda spalla e gli grattò un po' gli orecchi, pensando a Kyo.

Una volta che ebbe ripreso fiato, montò in sella e incitò il grifone a marciare. Per molto tempo l'animale si rifiutò di obbedire, e rimase fermo a terra, accucciato come una sfinge. Infine si alzò, protestando con un brontolio, e si avviò al passo in direzione nord, con lentezza esasperante. Intorno a loro si cominciavano a distinguere chiaramente colline e campi, alberi secolari e villaggi, ma l'animale si rifiutò di volare finché non fu sorto il sole. Infine si levò in volo, trovò un buon vento che andava nella direzione voluta, e si lasciò trasportare da esso nell'alba chiara e luminosa.

Di tanto in tanto, Rocannon si dava un'occhiata alle spalle. Scorgeva soltanto il paesaggio tranquillo, la nebbia che si agitava sulla superficie del fiume, a occidente. Provò ad ascoltare con il senso mentale, e percepì pensieri, movimenti e sogni del nemico che si svegliava; le normali cose.

Aveva fatto quel che poteva. Era stato uno sciocco, a pensare di poter fare qualcosa. Che cosa era un singolo uomo, contro un intero popolo impegnato nella guerra? Esausto, rimuginando stancamente la propria sconfitta, continuò il suo volo verso Breygna, unico luogo dove potesse andare. Dopo un poco, smise perfino di chiedersi perché la Lega ritardasse tanto il suo attacco. La Lega non contava affatto di intervenire. Avevano pensato che il suo messaggio fosse un trucco, un tranello. O, per quanto ne poteva sapere lui, forse le coordinate che ricordava erano sbagliate: una sola cifra diversa, e il suo messaggio sarebbe finito nel vuoto, dove non esistevano né il tempo né lo spazio. E per questo risultato era morto Raho, era morto Iot, era morto Mogien: per un messaggio che non sarebbe mai arrivato. Ed egli era esiliato laggiù per il resto della sua vita: un uomo senza scopo, uno straniero in un mondo straniero.

Ma, in fin dei conti, la cosa non aveva importanza. Egli era un singolo uomo. E il destino di un singolo uomo non ha importanza.

«Se non ha importanza quello, che cosa ha importanza?»

Il ricordo di queste parole era insopportabile. Si guardò ancora una volta alle spalle, per distogliere la mente dal ricordo di Mogien… e con un grido sollevò la mano ferita, per respingere la luce insopportabile, l'alto e bianco albero di fuoco che era spuntato silenziosamente sulla pianura dietro di lui.

Nel rumore, nella tempesta di vento che fecero seguito alla luce, il grifone miagolò e fuggì, poi si gettò a terra, terrorizzato. Rocannon smontò di sella e si rannicchiò sul terreno, con la testa fra le braccia. Ma non riuscì a respingerla… non la luce, ma l'oscurità, l'oscurità che gli accecava la mente, la consapevolezza nella propria carne della morte di mille uomini in un solo istante. Morte, morte, morte e morte ancora e ancora, tutto insieme, in un solo momento, in un corpo solo e in un cervello solo, il suo. E dopo questo, il silenzio.

Sollevò la testa e provò ad ascoltare, ma udì soltanto il silenzio.

EPILOGO

Al tramontare del sole prese terra, portato dal vento, nella corte del volo di Breygna, smontò di sella e rimase fermo accanto al destriero: un uomo stanco, con la testa grigia china.

Si raccolsero rapidamente intorno a lui, tutti gli abitanti del castello dai capelli splendenti, e gli chiesero cosa fosse stato il grande fuoco scoppiato a sud, e se i messi venuti dal piano ad annunciare la distruzione degli Stranieri dicessero il vero. Era strano come si radunassero intorno a lui, convinti che sapesse tutto.

Rocannon cercò con lo sguardo la figura di Ganye. Quando scorse il suo volto, ritrovò la voce e disse esitando: — La sede del nemico è distrutta. Non ritorneranno mai più. Il tuo Signore Ganhing è stato vendicato. E il mio Signore Mogien. E i tuoi fratelli sono stati vendicati, Yahan; e la gente di Kyo; e i miei compagni. Tutti i nemici sono morti.

Tutti fecero largo intorno a lui, ed egli entrò innanzi a tutti nel castello.

Una sera, qualche giorno più tardi, nel chiarore dopo i rovesci di un temporale, Rocannon camminava con Ganye sul terrazzo della torre, umido di pioggia. Lei gli aveva chiesto se adesso sarebbe partito da Breygna.

Rocannon lasciò passare molto tempo prima di rispondere.

— Non so — disse infine. — Yahan ritorna al nord, a Hallan, credo. Alcuni giovani di qui vorrebbero fare il viaggio per via di mare. E la Signora di Hallan attende notizie di suo figlio… Ma Hallan non è la mia casa. Io non ho casa, qui. Io non sono della vostra gente.

Ganye ormai sapeva qualcosa delle sue origini, e domandò: — La tua gente non verrà qui a cercarti?

Rocannon lasciò vagare lo sguardo sul bellissimo paesaggio, sul fiume che, lontano, verso sud, scintillava nella foschia estiva. — Penso di sì — disse. — Tra otto anni. Possono inviare subito la morte, ma la vita è più lenta… Ma qual è, la mia gente? Io non sono più quello che ero un tempo. Sono cambiato; ho bevuto da quella fonte nelle montagne. E non voglio mai più tornare in luoghi dove potrei udire le voci dei miei nemici.

Camminarono in silenzio, fianco a fianco, per sette passi, fino al parapetto. Poi Ganye, alzando gli occhi verso l'azzurrino, vago bastione della montagna, disse: — Rimani qui con noi.

Rocannon esitò qualche istante, poi disse: — Sì. Per un poco.

Ma rimase laggiù per tutto il resto della sua vita. Quando le navi della Lega ritornarono sul pianeta, e Yahan guidò verso il sud una delle squadre, a Breygna, per incontrarlo, era morto. La gente di Breygna piangeva il suo Signore, e fu la sua vedova, alta, dai capelli biondi, che portava al collo una grande pietra blu incastonata nell'oro, ad accogliere coloro che erano venuti a cercarlo. Così egli non seppe mai che la Lega aveva dato il suo nome a quel mondo.

FINE