Miles attese per un interminabile minuto, ma Galeni non aggiunse altro. «Sissignore.» Salutò ed uscì. Dieci giorni… altri dieci giorni… come minimo… potevano aspettare altri dieci giorni, ma sperava che per allora i cervelloni del QG avessero ridato ossigeno al loro cervello collettivo.
L’ospite femminile di rango più alto al ricevimento di quel pomeriggio era l’ambasciatore di Tau Ceti. Era una donna snella, di età indefinibile, con un viso dalla struttura ossea affascinante e occhi acuti e penetranti. Miles sospettava che la sua conversazione fosse già di per se stessa istruttiva, sottile, politica e brillante. Ma ohimè, poiché era già stata monopolizzata dall’ambasciatore barrayarano in persona, Miles dubitava che avrebbe avuto la possibilità di scoprirlo.
La matrona che gli era stata assegnata doveva il suo rango al marito, che era il Lord Mayor di Londra e che in quel momento si stava intrattenendo con la moglie dell’ambasciatore. La moglie del sindaco sembrava in grado di chiacchierare senza sosta, soprattutto degli abiti indossati dagli altri ospiti. Un cameriere dal portamento militaresco (tutti i camerieri umani dell’ambasciata erano uomini del dipartimento di Galeni), che reggeva un vassoio dorato, gli offrì un bicchiere di vino di colore paglierino e Miles lo prese, grato. Sì, due o tre di quelli e con la sua bassa tolleranza all’alcol sarebbe riuscito a sopportare anche la moglie del sindaco. Non era proprio per sottrarsi a occasioni sociali come quella che lui aveva sudato sette camicie, nonostante i suoi handicap fisici, per entrare nel Servizio Imperiale? Certo, più di tre bicchieri e si sarebbe ritrovato lungo e disteso sul pavimento di maiolica, con un sorriso ebete sul volto, profondamente addormentato e nei guai fino al collo al risveglio. Bevve un lungo sorso e quasi soffocò. Succo di mela… Maledetto Galeni, era davvero scrupoloso. Una rapida occhiata in giro gli confermò che la sua non era la stessa bibita servita agli altri ospiti. Passandosi un dito sull’alto colletto della giacca dell’uniforme, Miles fece un sorrisetto tirato.
«C’è qualcosa che non va nel suo vino, Lord Vorkosigan?» chiese preoccupata la matrona.
«Il vitigno è un tantino… giovane» mormorò Miles. «Suggerirò all’ambasciatore di tenere quest’annata ancora un po’ nelle cantine.» Ad esempio fino a quando me ne andrò da questo pianeta…
Il salone principale di ricevimento era un ambiente con il soffitto a volta, in vetro, molto elegante in cui ci si aspettava di sentire un’eco mostruosa ma che era invece stranamente silenzioso nonostante tutte le persone che le nicchie e i vari piani potevano contenere. Smorzatori di rumore nascosti da qualche parte, pensò Miles… e sarebbe stato pronto a scommettere che se uno avesse saputo in che punto mettersi, avrebbe trovato anche delle zone mute, impenetrabili a orecchie indiscrete sia umane che elettroniche. Prese mentalmente nota, per il futuro, del punto in cui si trovavano l’ambasciatore barrayarano e l’ambasciatrice di Tau Ceti; sì, persino i movimenti delle loro labbra sembravano sfocati e come indefinibili. C’era un trattato sui diritti di passaggio nello spazio locale di Tau Ceti che sarebbe scaduto tra non molto.
Miles e la sua compagna si avviarono verso il centro architettonico della sala, la fontana con lo stagno. Si trattava di una scultura gocciolante e fresca, circondata da muschio e felci in tinta. Nelle acque ombreggiate si muovevano misteriose forme rosso dorate.
Miles si irrigidì di colpo e poi si costrinse a rilassarsi, mentre un giovane nell’uniforme nera cetagandana e il viso dipinto con i segni gialli e neri del ghemtenente si avvicinava a loro, sorridente e attento. Si scambiarono un cenno guardingo.
«Benvenuto sulla Terra, Lord Vorkosigan» mormorò il cetagandano. «È qui in visita ufficiale o per un viaggio educativo e di piacere?»
«Entrambe le cose, in realtà» rispose Miles scrollando le spalle. «Sono stato assegnato a questa ambasciata per la mia, ah… istruzione. Lei però è avvantaggiato, signore.» Non era vero, in effetti; sia i due cetagandani in uniforme che i due in borghese, più tre individui sospettati di essere segretamente al soldo dell’Impero gli erano stati indicati sin dall’inizio del ricevimento.
«Ghemtenente Tabor, addetto militare dell’ambasciata cetagandana» si presentò educatamente e di nuovo si scambiarono un rigido cenno del capo. «Conta di fermarsi molto, milord?»
«Non credo. E lei?»
«Ho intrapreso l’arte del bonsai, per hobby. Si dice che i giapponesi dell’antichità lavorassero su un singolo albero anche per cento anni. O forse era solo una loro impressione.»
Miles sospettò che l’altro stesse facendo dello spirito, ma il volto di Tabor era così serio che era difficile esserne sicuri. Forse temeva di screpolare le sue belle strisce di pittura.
Uno scroscio di risa, dolce come il trillare di campanellini, attirò la loro attenzione verso l’estremità della fontana. Ivan Vorpatril, appoggiato alla ringhiera cromata, chinava la testa scura verso la sua bionda compagna. La donna indossava un abito rosa salmone e argento, che pareva fluttuare anche mentre stava ferma, come in quel momento; la massa di capelli biondi, spettinati ad arte, le ricadeva su una spalla candida e le unghie rosa emettevano bagliori argentati ogni volta che muoveva le mani.
Tabor emise un fioco sibilo, si chinò galantemente sulla mano della matrona e si allontanò. Miles lo rivide all’altra estremità della fontana, che cercava di accostarsi ad Ivan… ma chissà come, fu certo che il cetagandano non si fosse accostato per estorcergli segreti militari. Non c’era da stupirsi se il suo interesse per Miles era stato solo superficiale. Ma la caccia di Tabor alla bionda fu interrotta da un gesto del suo ambasciatore e il ghemtenente fu costretto a seguire i suoi dignitari che se ne andavano.
«Che giovane simpatico, Lord Vorpatril» chiocciò la matrona. «Noi tutti qui lo apprezziamo molto. La moglie dell’ambasciatore mi ha detto che siete parenti, vero?» Piegò la testa di lato, in un gesto interrogativo.
«Siamo cugini, in un certo senso» rispose Miles. «E… chi è la giovane donna che è con lui?»
«Quella è mia figlia, Sylveth» rispose orgogliosa la matrona.
La figlia, naturalmente. L’ambasciatore e la moglie erano sottili e acuti conoscitori delle sfumature barrayarane di rango. Miles, che apparteneva al ramo principale della famiglia, oltre ad essere il figlio del Primo Ministro Conte Vorkosigan, superava Ivan nella scala sociale, se non in quella militare… il che significava, che lui, Miles, era condannato. Gli sarebbero state affibbiate sempre le matrone dei VIP, mentre Ivan si sarebbe spupazzato tutte le figlie…
«Una bella coppia» commentò a denti stretti.
«Vero? E siete cugini in che senso, Lord Vorkosigan?»
«Eh? Oh, sì, io e Ivan: le nostre nonne erano sorelle. Mia nonna era la figlia maggiore del Principe Xav Vorbarra e la nonna di Ivan la minore.»
«Due principesse? Che cosa romantica!»
Ivan accarezzò per un attimo l’idea di raccontarle nei particolari in che modo sua nonna, il fratello di lei e a maggior parte dei loro figli fossero stati trasformati in polpette durante il regno del terrore dell’Imperatore Yuri il Folle, ma lasciò perdere. No, la moglie del sindaco l’avrebbe vista solo come una storia bizzarra, da brivido… o peggio ancora, romantica. Miles non credeva che sarebbe riuscita ad afferrare fino in fondo la stupidità e la violenza delle azioni di Yuri, le cui conseguenze avevano plasmato la storia di Barrayar fino al presente.
«Lord Vorpatril possiede un castello?» chiese maliziosa la matrona.
«Oh, no. Sua madre, mia Zia Vorpatril» che socialmente è un barracuda che ti mangerebbe in un solo boccone «possiede un delizioso appartamento nella capitale di Vorbarr Sultana.» Tacque e poi riprese: «Avevamo un castello, ma è andato bruciato alla fine dell’Era dell’Isolamento.»