«Un castello in rovina: è quasi altrettanto romantico.»
«Terribilmente pittoresco» le assicurò Miles.
Qualcuno aveva lasciato sulla ringhiera della fontana un piatto con degli antipasti avanzati. Miles prese un salatino e lo sbriciolò per dare da mangiare ai pesci rossi, che vennero a galla ad afferrare le briciole con un sottile risucchio.
Uno però rifiutò quell’esca, continuando a restarsene nascosto sul fondo. Era interessante vedere un pesce rosso che non mangiava… ehi, ecco la soluzione al problema dell’inventario dei pesci rossi di Ivan. Forse quello testardo era un diabolico costrutto cetagandano, le cui fredde scaglie brillavano come oro rosso, perché erano d’oro.
Miles avrebbe potuto afferrarlo con una mossa felina, poi calpestarlo sotto i piedi e l’oggetto avrebbe emesso uno scricchiolio metallico e uno sfrigolio elettrico… allora Miles lo avrebbe sollevato in aria con un gesto di trionfo… «Ah, grazie alla mia astuzia e ai miei riflessi ho catturato la spia che c’era tra voi!»
Ma se la sua ipotesi fosse stata sbagliata… ah! lo squish sotto le suole, la matrona che si ritraeva inorridita e il figlio del primo ministro barrayarano avrebbe di colpo acquistato la nomea di un giovane con seri problemi emotivi… Immaginò se stesso rivolgersi con voce gracchiante alla terrorizzata matrona, mentre le interiora del pesce schizzavano sul pavimento: «Ah ah! Dovrebbe vedere cosa faccio ai gattini!»
Alla fine anche il grosso pesce rosso venne a galla e afferrò la sua briciola con uno schizzo che bagnò gli stivali immacolati di Miles. Grazie, pesce. Mi hai salvato da un considerevole imbarazzo, pensò Miles. Naturalmente, se gli artigiani cetagandani erano davvero bravi, potevano progettare un pesce meccanico che mangiava sul serio e magari lasciava anche un po’ di escrementi…
La moglie del sindaco gli aveva appena rivolto un’altra domanda insidiosa su Ivan, che Miles, assorto com’era, non colse affatto. «Sì, è un vero peccato quella sua malattia» affermò in tono soave e stava per lanciarsi in un maligno resoconto sul patrimonio genetico di Ivan, retaggio di matrimoni tra consanguinei, esposizione alle zone radioattiva rimaste dopo la Prima Guerra Cetagandana, l’eredità di Yuri il Folle, quando all’improvviso il comunicatore schermato che aveva in tasca suonò.
«La prego di scusarmi, signora, mi chiamano.» Che Dio ti benedica, Elli, pensò mentre si allontanava dalla matrona e cercava un angolo tranquillo per rispondere. Nessun cetagandano in vista. Trovò una nicchia libera al secondo piano, circondata da piante verdi e rispose.
«Sì, comandate Quinn?»
«Miles, grazie a Dio» rispose la voce affannata di Elli. «Sembra che ci sia un Problema, laggiù, e tu sei l’ufficiale dendarii più vicino.»
«Che genere di problema?» Non gli piacevano i problemi con la maiuscola e Elli non era certo portata a farsi prendere dal panico. Sentì lo stomaco contrarsi.
«Non sono riuscita ad ottenere particolari sicuri, ma sembra che quattro o cinque nostri soldati in licenza a Londra si siano barricati in un negozio con un ostaggio e rifiutino di arrendersi alla polizia. Sono armati.»
«I nostri o la polizia?»
«Tutti e due, purtroppo. Il comandante della polizia con cui ho parlato sembrava pronto a spiccicare sangue dappertutto e molto presto.»
«Di male in peggio. Ma che diamine credi che stiano facendo?»
«Che io sia dannata se lo so. In questo momento sono in orbita, sto per scendere, ma ci vorranno dai quarantacinque minuti a un’ora prima che sia sul posto. Tung è ancora più lontano: dal Brasile gli ci vogliono due ore di volo suborbitale. Tu però potresti essere lì in dieci minuti. Ecco, codifico l’indirizzo nel tuo comunicatore.»
«Chi ha permesso ai nostri ragazzi di portare armi dendarii fuori dalla nave?»
«È una bella domanda, ma temo che per la risposta dovremo aspettare gli accertamenti post-mortem… per così dire» aggiunse cupa. «Pensi che troverai il posto?»
Miles guardò l’indirizzo apparso sul display. «Credo di sì. Ci vediamo là.» Speriamo…
«Bene. Quinn chiude.» Il canale si interruppe.
CAPITOLO TERZO
Miles si rimise in tasca il comunicatore e osservò il salone dei ricevimenti. La festa era al culmine: c’erano forse un centinaio di persone presenti, in una rutilante varietà di abiti terrestri, stravaganti fogge galattiche e un discreto pullulare di uniformi, a parte quelle barrayarane. Alcuni dei primi arrivati stavano già prendendo congedo, scortati dai barrayarani attraverso il controlli di sicurezza. I cetagandani se n’erano effettivamente andati, insieme ai loro amici. La sua fuga doveva quindi essere opportuna più che strategica.
Ivan stava ancora chiacchierando con la sua bella compagna dall’altro lato della fontana e Miles gli si avvicinò senza tanti complimenti.
«Ivan, trovati all’ingresso principale tra cinque minuti.»
«Cosa?»
«È un’emergenza, ti spiegherò dopo.»
«Che genere di …» cominciò Ivan, ma Miles, cercando disperatamente di non mettersi a correre, era già scivolato fuori dalla sala diretto al tunnel di salita sul retro.
Quando la porta della stanza che divideva con Ivan si chiuse con un sibilo alle sue spalle, si tolse in fretta l’uniforme verde, gli stivali, si tuffò verso l’armadio e si cacciò addosso la t-shirt nera e i pantaloni grigi dell’uniforme dendarii. Gli stivali dell’uniforme di gala barrayarana derivavano dagli stivali di cavalleria, mentre quelli dendarii dagli scarponi della fanteria. Quando c’erano di mezzo i cavalli, gli stivali barrayarani erano più pratici, anche se Miles non era mai riuscito a farlo capire a Elli; ci sarebbero volute due ore e più in sella su di un terreno pesante di campagna, con le caviglie ridotte a vesciche sanguinanti per convincerla che quella foggia aveva uno scopo non solo estetico. Ma qui non c’erano cavalli.
Sigillò gli scarponi da combattimento dendarii e si infilò la giacca bianca e grigia mentre precipitava a tutta velocità giù per il tubo di caduta. Arrivato in fondo si fermò per aggiustarsela, poi sollevò il mento e trasse un profondo respiro: non poteva svignarsela senza farsi notare, se ansimava come un mantice a bocca aperta. Prese un corridoio secondario che passava attorno al salone e portava all’ingresso principale. Finora sempre nessun cetagandano, grazie a Dio.
Ivan vide Miles avvicinarsi e spalancò gli occhi; poi rivolse un affrettato cenno di scusa alla bionda e trasse il cugino contro una pianta in vaso, come se volesse nasconderlo alla vista. «Cosa diavolo…?» sibilò.
«Devi farmi uscire di qui, aggirare le guardie.»
«Oh, no, scordatelo! Galeni userà la tua pelle come materasso se ti vede vestito così.»
«Ivan, non ho tempo di discutere e non ho tempo di spiegare, ed è proprio per questa ragione che scavalco Galeni. Quinn non mi avrebbe chiamato se non avesse davvero avuto bisogno di me. Devo andarmene adesso.»
«Diventerai un ANA!»
«Non se nessuno si accorge che manco. Digli… digli che mi sono ritirato nella nostra stanza a causa di un tremendo dolore alle ossa.»
«È quella tua osteo-giuntura che si fa di nuovo risentire? Scommetto che il medico dell’ambasciata potrebbe farti avere il tuo farmaco antiinfiammatorio…»
«No, no… non più del solito, comunque… però almeno non è del tutto una bugia e c’è una possibilità che ci credano. Vieni, porta anche lei.» E accennò con il mento in direzione di Sylveth, che attendeva Ivan fuori portata d’orecchi, con un’espressione interrogativa sul volto a forma di petalo di fiore.
«E a che scopo?»
«Mimetizzazione.» Sorridendo a denti stretti, Miles spinse Ivan per il gomito verso l’ingresse principale.