«Stavo pensando di farti prendere un’aspirina», fece. Si piegò in avanti e si strofinò sulla mia gamba. «Mmm», sussurrò, poi andò in bagno.
Mi alzai. Doveva esserci stato un clamoroso equivoco, pensai, e la testa prese a pulsarmi più forte. Chiusi gli occhi, respirai profondamente e attesi la mia aspirina.
Mi ci sarebbe voluto un po’ prima di abituarmi alla vita normale.
Invece, stranamente, non mi ci volle molto. Scoprii che se riuscivo a limitarmi a una o due birre, potevo rilassarmi quel tanto che bastava a confondermi con la fodera del divano. Dopo il lavoro non erano poche le sere della settimana in cui, sempre con il fedelissimo sergente Doakes alle costole, mi fermavo a casa di Rita, giocavo con Cody e Astor e, quando i ragazzi erano a letto, mi sedevo con lei sul divano. Quando arrivavano le dieci mi avviavo alla porta. Sembrava che Rita si aspettasse che la baciassi prima di andarmene; mi ero organizzato in modo da farlo proprio sulla soglia, sotto gli occhi di Doakes. Utilizzai tutte le tecniche che potei prendendo spunto dai tanti film che avevo visto, per la gioia di Rita.
A me piace la routine e aderii a tal punto ai nuovi ritmi che quasi cominciai a crederci anch’io. Erano così noiosi da mettere a dormire il mio vero io. Lontano, sul sedile posteriore dei più oscuri recessi di Dexterlandia, potevo ancora udire il Passeggero Oscuro russare dolcemente; agli inizi la cosa mi spaventava un po’ e mi faceva sentire solo. Ma non cambiai linea e trasformai le mie visite a Rita in una specie di gioco, verificando ogni volta fino a che punto potevo spingermi; sapevo che Doakes mi stava guardando e speravo che cominciasse a stupirsi, almeno un po’. Le portai fiori, dolci, pizza. Ci baciavamo sempre più fuori dalla soglia, incorniciati dal vano della porta, per fornire al sergente il miglior quadretto possibile. Mi rendo conto di quanto la scenetta fosse ridicola, ma era l’unica arma di cui disponevo.
Per giorni e giorni Doakes fu la mia ombra. Compariva in modo imprevedibile e ciò lo rendeva ancora più minaccioso. Non sapevo mai quando o dove avrebbe potuto materializzarsi, quindi era come se fosse sempre presente. Se entravo dall’ortolano, Doakes era in attesa vicino ai broccoli. Se attraversavo in bicicletta Old Cutler Road, da qualche parte, per la strada, avrei visto la Taurus marrone parcheggiata sotto un albero. Potevo stare anche un giorno senza incontrarlo, ma mi sembrava sempre di sentirlo da qualche parte, là fuori, aggirarsi sottovento e aspettare. Non osavo neppure sperare che si fosse arreso: se non lo vedevo, o era ben nascosto o attendeva di balzare fuori per cogliermi di sorpresa.
Ero costretto a interpretare a tempo pieno il Diurno Dexter, come un attore che, prigioniero in un film, sa che la realtà è appena al di là dello schermo, ma irraggiungibile quanto la luna. E come a lei, anelavo a Reiker. Il pensiero di quell’individuo che ciondolava privo di preoccupazioni in quegli assurdi stivali rossi mi era quasi insopportabile.
Naturalmente sapevo che anche Doakes non avrebbe potuto continuare all’infinito. Dopotutto gli abitanti di Miami lo pagavano non poco perché facesse il suo lavoro e lui doveva farlo. Ma il sergente aveva percepito il terremoto interiore che mi devastava e sapeva che, tenendomi a lungo sotto pressione, il mio travestimento avrebbe ceduto, doveva cedere, non appena i gelidi sussurri del Passeggero si fossero fatti più insistenti.
Quindi eccoci qui, sul filo di una lama che purtroppo era solo metaforica. Presto o tardi, sarei dovuto tornare a essere me stesso. Ma fino ad allora avrei visto Rita un sacco di volte. Lei non poteva reggere il moccolo alla mia vecchia fiamma, il Passeggero Oscuro, però io avevo bisogno della mia identità segreta. E finché non fossi sfuggito a Doakes, Rita era il mio mantello, la mia calzamaglia rossa, il mio cinturone con le armi segrete… in pratica l’intero costume.
Molto bene: mi sarei seduto sul divano, birra alla mano, a guardare Survivor e a pensare a una sua simpatica variante che non avrebbero mai trasmesso in tivù. Sarebbe bastato aggiungere Dexter agli altri naufraghi e intendere il titolo un po’ più alla lettera…
Non era poi tutto così deprimente, squallido e triste. Parecchie volte alla settimana giocavo a nascondino con Cody, Astor e le altre pesti del quartiere. Con questo torniamo a dove siamo partiti: al Disarmato Dexter, sprovveduto nella quotidianità e preso in ostaggio, assieme a una lattina di ravioli, da una banda di ragazzini schiamazzanti. Nelle sere di pioggia, ci sedevamo intorno al tavolo da pranzo mentre Rita faceva il bucato, lavava i piatti o nobilitava il suo piccolo nido con le gioie della vita domestica.
Non sono molti i giochi da tavolo che si possono fare con due ragazzini come Cody e Astor, a causa della loro giovane età e dei traumi subiti. Gran parte dei giochi in scatola li trovano noiosi, oppure non li capiscono, e quelli di carte sembrano richiedere un’ingenuità e una spensieratezza che nemmeno io riesco a simulare in modo credibile. Alla fine la scelta cadde sull’Impiccato; era un passatempo istruttivo, fantasioso e con una sfumatura omicida, il che accontentava tutti, Rita compresa.
Se nella fase pre-Doakes mi aveste chiesto che cosa pensassi di una vita trascorsa a giocare all’Impiccato e a bere Miller Light, avrei ammesso che il Deteinato Dexter predilige passatempi più oscuri. Però, man mano che passavano i giorni e mi immedesimavo sempre più nella realtà del mio travestimento, mi domandai: non è che mi stavo trovando un po’ troppo a mio agio nei panni del Capofamiglia Pantofolaio?
Nello stesso tempo giudicavo piuttosto confortante l’istinto predatore che animava Cody e Astor nel partecipare a un passatempo innocuo come l’Impiccato. Il loro slancio nel far finire appesa quella figurina mi faceva sentire un po’ come se tutti e tre fossimo della stessa specie. Quando alla fine riuscivano ad ammazzarlo, provavo nei loro confronti una sorta di affinità.
Astor aveva imparato a tracciare rapidamente la forca e le linee per le lettere. Lei ci sapeva fare con le parole. «Sette lettere», diceva, poi mordendosi le labbra aggiungeva: «Aspettate. Sei». Quando io e Cody sbagliavamo, lei saltava su ed esclamava: «Un braccio! Ah!» Cody la fissava inespressivo, poi abbassava lo sguardo sull’omino scarabocchiato con il cappio al collo. Quando toccava a lui e noi sbagliavamo, diceva con la sua voce bassa: «Gamba». Poi ci fissava con una faccia che, se avesse potuto provare emozioni, sarebbe stata di trionfo. E quando i trattini sotto la forca erano stati finalmente riempiti con la parola, tutti e due guardavano soddisfatti l’uomo impiccato e ogni tanto Cody diceva anche: «Morto», prima che Astor saltasse su a gridare: «Ancora, Dexter! Tocca a me!»
Era tutto così idilliaco. La nostra famigliola perfetta: Rita, i bambini e il Mostro. Ma non sarebbero bastati centinaia di impiccati a togliermi di testa la preoccupazione: il tempo stava volando, rapido, e presto sarei diventato un vecchio dai capelli bianchi, troppo debole per maneggiare un coltello. Mi sarei trascinato barcollante attraverso un’orrida quotidianità, con un anziano sergente Doakes alle calcagna e la sensazione di aver perso delle occasioni.
Finché non fossi riuscito a elaborare una via d’uscita, avevo il cappio al collo, non diversamente dagli omini di Cody e Astor. Era davvero deprimente e, mi vergogno ad ammetterlo, avevo quasi perso la speranza; non ce l’avrei mai fatta, se non mi fossi ricordato di un dettaglio importante.
Eravamo a Miami.
7
Chiaro che non poteva durare. Avrei dovuto immaginare che una situazione così anormale sarebbe dovuta finire, assoggettandosi al naturale ordine delle cose. Dopotutto, vivo in una città dove il panico è come un raggio di sole: sta sempre in agguato dietro la prossima nuvola. Tre settimane dopo il mio primo, traumatizzante incontro col sergente Doakes, le nubi finalmente si squarciarono.