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«Metti via quell’arma, Doakes», ordinò. L’uomo non si mosse quasi, ma si voltò a guardarla.

«Non c’è altro da fare», replicò lui. «Dammi retta.»

Deborah scosse la testa. «Sai che non puoi», aggiunse. Si fissarono per un po’, poi Doakes mi mise a fuoco. Fu davvero dura per me sostenere lo sguardo senza lasciarmi sfuggire un: «Che cosa aspetti… maledizione!» Ma, non so come, ci riuscii e il sergente alzò in aria la pistola.

Lanciò un’altra occhiata alla cosa, scosse il capo e ritirò l’arma. «Merda», brontolò, «Dovevi lasciarmelo fare.» E si voltò, allontanandosi rapido fuori dalla stanza.

Nei minuti seguenti, il posto si riempì di persone che cercavano disperatamente di lavorare senza guardare. Camilla Figg, un donnone con i capelli corti che faceva il tecnico di laboratorio e sembrava dotata di due sole espressioni, guardare e arrossire, raccoglieva le impronte piangendo in silenzio. Angel Batista, alias Angel Nessuna Parentela, come era solito dire quando si presentava, impallidì e serrò la mascella, anche se rimase nella stanza. Vince Masuoka, un collega che si fingeva anche lui un essere umano, fu percorso da un tremito così forte che dovette uscire a sedersi sul porticato.

Cominciai a domandarmi se dovessi mostrarmi anch’io impressionato, giusto per non dare nell’occhio. Forse sarei dovuto uscire e raggiungere Vince, sedermi accanto a lui. Di che cosa si parla in queste situazioni? Di baseball? Del tempo? Di certo non dell’essere da cui stavamo scappando, anche se mi sorpresi a notare che non mi sarebbe dispiaciuto chiacchierarne. Per la verità, quella cosa stava cominciando a generare un lieve brivido di eccitazione in una certa parte del mio subconscio. Avevo fatto di tutto per non attirare l’attenzione, ed ecco invece qualcuno che faceva l’opposto. Chiaramente il mostro voleva mettersi in evidenza per qualche motivo, forse solo per un naturale spirito di competizione; eppure la faccenda mi sembrò un po’ irritante, anche se mi spingeva a saperne di più. Chiunque fosse l’artefice, era diverso da tutti quelli che avevo incontrato. Dovevo inserire quell’anonimo predatore nella mia lista? O dovevo fingere di svenire dall’orrore e uscire a sedermi sotto il portico?

Mentre rimuginavo su questa difficile scelta, il sergente Doakes mi passò vicino, sfiorandomi. Una volta tanto non mi guardò in cagnesco, ma mi ricordò che, per colpa sua, al momento la lista era sospesa. Fu piuttosto sconcertante, tuttavia mi aiutò a decidere. Tentai di elaborare un’espressione facciale adeguatamente sconvolta, anche se mi riuscì soltanto di alzare le sopracciglia. Due infermieri entrarono di corsa, determinati, ma, non appena scorsero la vittima, si arrestarono di colpo. Uno si precipitò veloce fuori dalla stanza. L’altro, una giovane donna di colore, si voltò verso di me e disse: «Che cazzo pensano che possiamo farci, noi?» Poi anche lei scoppiò a piangere.

Ammettetelo, aveva centrato il problema. La soluzione del sergente Doakes cominciava a sembrare la più pratica, addirittura elegante. Sembrava invece vagamente fuori tema caricare quella cosa su un’ambulanza e tuffarsi nel traffico di Miami per portarla in ospedale. Come la giovane signora aveva elegantemente osservato, che cosa cazzo ci potevano fare loro? Eppure qualcuno doveva pur fare qualcosa, ovvio. Se ci limitavamo a lasciarlo qui e a girarci intorno, probabilmente qualcuno si sarebbe lamentato dei poliziotti che vomitavano in cortile, il che non avrebbe giovato all’immagine del distretto.

Alla fine fu Deborah a trovare la soluzione. Convinse gli infermieri a somministrare un calmante alla vittima e a portarla via, il che permise ai tecnici di laboratorio, inspiegabilmente deboli di stomaco, di tornare dentro a lavorare. Non appena la droga fece effetto sulla cosa, una quiete quasi estatica avvolse la casupola. Gli infermieri coprirono l’essere e lo trasportarono sull’ambulanza, attenti a non farlo cadere, poi si allontanarono guidando nel tramonto.

Giusto in tempo; appena partita l’ambulanza, arrivò il furgone dei giornalisti. Un po’ mi dispiacque: avrei voluto vedere la reazione di uno dei due reporter, in particolare di Rick Sangre. Era il fautore del motto: «Sbatti il sangue in prima pagina» e non l’avevo mai visto esprimere dolore o disgusto se non davanti alla telecamera o quando aveva i capelli in disordine. Ma stavolta nulla. Quando il cameraman di Rick fu pronto per le riprese, non era rimasto granché da vedere, a parte la casupola recintata di nastro giallo e un gruppetto di poliziotti taciturni. Se già di solito non avevano molto da raccontare a Sangre, forse quel giorno non sarebbero stati neppure in grado di dirgli come si chiamavano.

Non avevo molto da fare. Ero arrivato con l’auto di Deborah e quindi ero senza il mio kit, e comunque non c’erano macchie di sangue visibili. Dato che era quella l’area di mia competenza, pensai di dover trovare qualche traccia, rendermi utile. Eppure il nostro amico chirurgo era stato troppo attento. Per sicurezza, guardai nelle altre zone della casa, che non erano molte. C’erano una minuscola camera da letto, un bagno ancora più piccolo e un ripostiglio. Sembravano vuoti, a eccezione di un materasso rotto sul pavimento della camera da letto. Pareva provenire dallo stesso robivecchi della poltrona del salotto ed era piatto come una bistecca. Non c’erano altri mobili o accessori, nemmeno una posata di plastica.

L’unico oggetto che aveva un tocco vagamente personale fu quello che Angel Nessuna Parentela scovò sotto il tavolo, mentre terminavo il mio rapido giro della casa. «Hola», disse, e con le sue pinzette tirò su dal pavimento un pezzo di carta. Mi avvicinai per vedere di che cosa si trattava. Non valeva granché: era solo una paginetta bianca, leggermente strappata in cima, da cui era stato staccato un piccolo rettangolo. Guardai sopra la testa di Angel, sicuro che su un lato del tavolo avrei trovato la parte mancante, attaccata a un pezzo di scotch. «Mira», indicai e Angel alzò lo sguardo: «Aha», fece.

Mentre esaminava con attenzione lo scotch (che mantiene meravigliosamente le impronte digitali), Angel posò il biglietto sul pavimento e mi chinai a osservarlo. Sopra c’erano scritte alcune lettere con una grafia filiforme; mi avvicinai a leggerle:

LEALTÀ

«Lealtà?» ripetei.

«Chiaro. Non è una virtù fondamentale?»

«Chiediamolo a lui», risposi, e Angel rabbrividì rischiando di far cadere le pinzette.

«Me cago en diez con questa merda», commentò e afferrò un sacchetto di plastica per infilarci il biglietto. Non era un bello spettacolo e poi non c’era altro da vedere, così mi diressi alla porta.

Sicuramente non sono un grande profiler, ma per via del mio oscuro hobby mi vengono spesso numerose intuizioni riguardo ad altri crimini che sembrano avere una certa parentela con i miei. Questo, comunque, andava ben oltre la mia esperienza e immaginazione. Non c’era la minima traccia riguardo la personalità o le motivazioni dell’omicida, e la cosa mi intrigava e mi irritava insieme. Quale predatore avrebbe mai lasciato in giro un pezzo di carne ancora vivo che si dibatteva?

Uscii sul portico. Doakes si stava consultando con il capitano Matthews: gli stava dicendo qualcosa che sembrava impensierirlo. Deborah si era seduta accanto alla signora anziana e parlava con lei a bassa voce. Sentii che l’aria fredda era in arrivo, sotto forma delle raffiche di vento che precedono la tempesta pomeridiana; non appena alzai lo sguardo, la prima goccia di pioggia cadde sul marciapiede. Sangre era in piedi davanti al nastro giallo. Agitava il microfono tentando di attirare l’attenzione del capitano; anche lui vide le nuvole e, nel momento stesso in cui udì il rombo del tuono, lanciò il microfono al produttore e corse sul camper.