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Anche il mio stomaco tuonò e mi accorsi che nel caos generale avevo dimenticato di pranzare. Questo non andava bene: avevo bisogno di mantenermi in forze. Il mio metabolismo naturalmente elevato necessita di un’attenzione costante: niente dieta per Dexter. Ma per gli spostamenti in macchina dipendevo da Deborah e avevo la sensazione che non avrebbe approvato il mio bisogno di cibo in quel momento. La guardai un’altra volta. Stava consolando la signora Medina, che sembrava aver smesso di vomitare e ora si concentrava sul pianto.

Sospirai e, sotto la pioggia, mi diressi alla macchina. Non mi importava molto di bagnarmi. Avevo davanti una lunga attesa per tornare asciutto.

E in effetti fu piuttosto lunga, due ore abbondanti. Mi sedetti in auto, ascoltai la radio e cercai di immaginare, morso dopo morso, come poteva essere mangiare un sandwich medianoche: lo scricchiolio della crosta di pane così croccante e abbrustolita che mentre mordi ti graffia il palato. Poi il primo assaggio di senape seguito dal morbido formaggio e dalla carne salata. Morso successivo: un pezzo di cetriolo. Mastico per bene; lascio che si mescolino i sapori. Ingoio. Bevo una bella sorsata di Iron Beer (si pronuncia Iroan Beier, ed è una bibita analcolica). Sospiro. Estasi allo stato puro. Mangiare è in cima alle mie preferenze, a parte giocare con il Passeggero Oscuro. Che io non sia grasso è un vero miracolo della genetica.

Ero al terzo panino immaginario, quando finalmente Deborah tornò alla macchina. Scivolò al posto del guidatore, chiuse la portiera e rimase così, a fissare oltre il parabrezza rigato di pioggia. So benissimo che non era la cosa migliore da dire, ma non potevo farci niente. «Mi sembri sbattuta, Deb. Che ne dici di pranzare?»

Scosse la testa senza rispondere.

«Ti andrebbe un bel panino? O una macedonia… per aumentare gli zuccheri in circolo. Starai molto meglio.»

Stavolta mi guardò, ma i suoi occhi non contenevano alcuna speranza di cibo per il prossimo futuro. «È per questo che volevo diventare un poliziotto», disse.

«Per la macedonia?»

«Quella cosa lì dentro…» aggiunse, e poi tornò a guardare fuori dal parabrezza. «Voglio incastrare quel… quel… insomma, qualunque cosa possa ridurre così un essere umano. Potessi, lo mangerei vivo.»

«Deb, non è proprio come ingoiare un buon panino…»

Sbatté forte i pugni contro il volante. Un’altra volta. «Bastardo», gridò. «Fottuto bastardo!»

Sospirai. Chiaramente l’Estenuato Dexter stava per essere privato del suo tozzo di pane. E tutto perché Deborah stava schizzando dopo aver visto un pezzo di carne tremolante. Certo, era davvero terribile e il mondo sarebbe stato un posto migliore senza qualcuno che combinava cose così, ma non per questo dovevamo saltare il pranzo. Non avevamo forse bisogno di mantenerci in forze per catturare quel tipo? Comunque non mi sembrava il momento adatto per spiegarlo a Deborah, perciò mi limitai a restarle seduto accanto, osservando la pioggia che picchiava contro il parabrezza e assaporando il mio quarto panino immaginario.

Il mattino dopo, al lavoro, mi ero appena sistemato nel mio cubicolo quando squillò il telefono. «Il capitano Matthews vuole vedere tutti i presenti di ieri», disse Deborah.

«Buondì, sorellina. Bene, grazie, e tu?»

«Adesso», fece e riattaccò.

Il mondo dei poliziotti è fatto di abitudini, ufficiali e non. Ed è uno dei motivi per cui mi piace. So sempre che cosa devo aspettarmi, quindi sono poche le reazioni umane da memorizzare e simulare all’occorrenza e poche le occasioni di essere colto impreparato e di reagire in modi che metterebbero in discussione la mia appartenenza alla specie.

A quanto ne sapevo, il capitano Matthews non aveva mai mandato a chiamare «tutti i presenti». Anche quando un caso sollevava un gran polverone mediatico, la sua politica era quella di tenere personalmente i contatti con la stampa e con gli organi superiori di comando, lasciando che l’ufficio investigativo lavorasse sul caso. Non mi venne in mente nessun motivo che potesse spingerlo a violare quel protocollo, anche con un caso tanto insolito. E, soprattutto, così presto: aveva a malapena avuto il tempo di rendere pubblica la notizia.

Ma «adesso» voleva comunque dire adesso, per quanto ne sapevo, così trottai in corridoio diretto verso l’ufficio del capitano. La sua segretaria, Gwen, una delle donne più efficienti al mondo, era seduta alla scrivania. Era anche una delle più semplici e serie e non potevo fare a meno di stuzzicarla. «Gwendolyn! Quale adorabile visione! Fuggiamo insieme al laboratorio analisi!» esclamai, vedendola.

Lei indicò con un cenno la porta dal lato opposto della stanza. «Sono in sala conferenze», disse senza battere ciglio.

«Devo prenderlo come un no?»

Lei spostò il viso di qualche centimetro sulla destra. «La porta là in fondo», precisò. «Ti stanno aspettando.»

In effetti aveva ragione. A capotavola era seduto il capitano Matthews con una tazza di caffè in mano e lo sguardo severo. Tutt’intorno c’erano Deborah, Doakes, Vince Masuoka, Camilla Figg e i quattro poliziotti in uniforme, di guardia quando eravamo arrivati alla casetta degli orrori. Matthews mi fece un cenno col capo e domandò: «Ci siamo tutti?»

Doakes smise di fissarmi e fece: «Gli infermieri».

Matthews scosse la testa. «Non sono un problema nostro. Qualcuno parlerà loro più tardi.» Si schiarì la gola e guardò in basso, come se consultasse un copione invisibile. «Okay», disse e tossì un’altra volta. «Gli… uh… gli eventi di ieri che hanno avuto luogo in… uhm… in North West 4th Street sono stati messi sotto silenzio per ordini superiori.» Alzò lo sguardo e per un attimo pensai che la cosa gli facesse un certo effetto. «Molto superiori», aggiunse. «Con questo vi intimo di tenere per voi ciò che potete aver visto, sentito o ipotizzato riguardo a quei luoghi ed eventi. Non voglio dichiarazioni di alcun tipo, pubbliche o private.» Squadrò Doakes, che annuì, e poi si rivolse a tutti noi, seduti intorno al tavolo. «Perciò, ah…»

Il capitano Matthews fece una pausa e si incupì, perché si era reso conto di non avere nessun «perciò» da aggiungere. Fortunatamente per la sua reputazione di abile parlatore, la porta si aprì. Ci voltammo a guardare.

Un uomo molto grosso e ben vestito riempì il vano della soglia. Non aveva la cravatta e i primi tre bottoni della camicia erano slacciati. Un diamante da mignolo brillava alla sua mano sinistra. Aveva i capelli mossi e spettinati ad arte. Doveva essere sulla quarantina, anche se il naso sembrava più vecchio. Aveva una cicatrice sul sopracciglio destro e un’altra da un lato del mento, ma l’impressione generale era quasi decorativa. Ci guardò tutti quanti con un sorriso allegro e luminoso e con occhi azzurri e vuoti; rimase immobile per un drammatico istante prima di rivolgersi al capotavola: «Capitano Matthews?»

Lui, che era un uomo piuttosto grosso e prestante, appariva piccolo e quasi effeminato a confronto con l’individuo appena comparso, e immagino che si sentisse tale. In ogni caso, spinse virilmente in avanti la mascella e rispose: «Sono io».

L’omone si avvicinò a Matthews e gli porse la mano. «Piacere, capitano. Mi chiamo Kyle Chutsky. Ci siamo parlati al telefono.» Mentre si presentava osservava la tavolata, indugiando su Deborah per poi tornare a Matthews. Dopo neanche mezzo secondo si girò di scatto e per un istante fissò Doakes. Nessuno dei due parlò, si mosse, fece un cenno o si scambiò il biglietto da visita, ma ero certo che i due si conoscessero. Senza darlo a intendere in alcun modo, Doakes abbassò lo sguardo sul tavolo e Chutsky tornò a rivolgere la sua attenzione sul capitano. «Il vostro è un gran bel distretto, capitano Matthews. Di voi ho solo sentito parlare bene, ragazzi.»