Dunque se Doakes aveva qualcosa da nascondere, ero certo che l’avrei scovato, mi bastava anche un misero filo a cui attaccarmi e sarebbe venuto fuori il suo tenebroso passato. Conoscendolo, ero abbastanza certo che si sarebbe trattato di qualcosa di disturbato e dexteriano. Forse ero stato ingenuo a credere di poter usare queste ipotetiche informazioni per allontanarlo da me, ma pensai che potesse essere un’ottima occasione. Non l’avrei affrontato direttamente chiedendogli di lasciar stare tutto eccetera: con uno come Doakes non sarebbe stato molto saggio. Inoltre, si sarebbe trattato di un ricatto, e mi avevano spiegato che era una brutta cosa. Comunque l’informazione è potere e io avrei sicuramente trovato un modo per utilizzare ciò che avrei scoperto, un modo per dare al sergente qualcosa di cui occuparsi, smettendo di pedinare Dexter e interferire nella sua Crociata Morale. Un uomo che scopre che i suoi pantaloni vanno a fuoco non ha molto tempo per interessarsi dei fiammiferi altrui.
Uscii dall’ufficio del capitano con il sorriso sulle labbra, tornai al mio minuscolo cubicolo al laboratorio analisi e mi misi al lavoro.
Poche ore più tardi avevo in mano tutto quello che si poteva trovare. Il dossier sul sergente Doakes era stranamente poco dettagliato. Ma quel poco bastò a lasciarmi senza fiato: Doakes aveva un nome! Si chiamava Albert… Qualcuno si era mai rivolto a lui in quel modo? Incredibile. E io che pensavo si chiamasse Sergente. E c’era anche un luogo di nascita: Waycross, in Georgia. Non smettevo di stupirmi. Ma c’era di più e di meglio: prima di arrivare al distretto, il sergente Doakes era stato… il sergente Doakes! Nell’esercito, niente meno che nelle Special Forces!
L’ultima cosa che mi sarei immaginato era Doakes con uno di quei berretti verdi in testa che marciava fianco a fianco con John Wayne. Mi veniva da canticchiare una marcetta militare.
Erano elencati numerosi elogi e medaglie militari, ma non trovai nessun riferimento agli atti eroici con cui le avrebbe guadagnate. Comunque, il solo fatto di conoscerlo accrebbe il mio spirito patriottico. Il resto del dossier era privo di particolari significativi. Spiccava soltanto un periodo di diciotto mesi detto «servizio distaccato». Doakes l’aveva passato nel Salvador come consigliere militare, poi era ritornato in patria per lavorare sei mesi al Pentagono, infine si era ritirato nella nostra fortunata città. Il Distretto di Polizia di Miami era stato lieto di accogliere un veterano decorato e offrirgli un impiego redditizio.
Non sono un patito di Storia, però mi sembra di ricordare che il Salvador fosse una sorta di museo degli orrori. In quel periodo lungo Brickell Avenue c’erano stati cortei di protesta. Non mi veniva più in mente perché, ma sapevo come scoprirlo. Mi rimisi al computer, mi connessi e, cari miei, lo trovai. Quando c’era Doakes, il Salvador era un circo a tre piste dedito a torture, stupri, omicidi e crimini di ogni genere. E nessuno aveva pensato di invitarmi.
Trovai un’infinità di notizie inviate sulla rete da diversi gruppi per i diritti umani. Erano piuttosto serie, quasi insistenti, nel descrivere ciò che era successo laggiù. In ogni caso, per quanto potessi dire, delle loro proteste non era mai trapelato granché. Dopotutto, si trattava solo di diritti umani. Doveva essere davvero frustrante; la Lega Anti Vivisezione era molto più considerata.
Questi poveri cristi avevano svolto le loro ricerche, pubblicato i loro resoconti su stupri e torture completi di documentazione fotografica, grafici e nomi di quegli oscuri mostri disumani che godevano nell’infliggere dolore alla gente. Intanto i mostri disumani in questione si ritiravano nel sud della Francia, mentre il resto del mondo boicottava i ristoranti che maltrattavano i polli.
La cosa mi dava una grande speranza. Se mai mi dovessero prendere, forse mi basterebbe manifestare contro i latticini e sarei messo in libertà.
I nomi salvadoregni che trovai, come pure i particolari storici, non mi dissero molto. Nemmeno le organizzazioni coinvolte. A prima vista in Salvador la lotta per il potere si configurava come una splendida competizione senza regole in cui non esistevano veri buoni, ma diversi gruppi di cattivi con i campesinos presi in mezzo. Comunque, gli Stati Uniti avevano appoggiato segretamente uno degli schieramenti, che non vedeva l’ora di fare a pezzi i sospetti avversari. Fu questo ad attirare la mia attenzione. Era successo qualcosa che aveva volto gli eventi in loro favore, una terribile minaccia non specificata, qualcosa dall’apparenza così spaventosa da far rimpiangere alla gente gli speroni nel culo.
Di qualunque cosa si trattasse, sembrava coincidere col «servizio distaccato» di Doakes.
Tornai a sedere sulla mia sgangherata sedia girevole. Bene, bene, bene, pensai. Quale interessante coincidenza. Praticamente nello stesso lasso di tempo abbiamo Doakes, orribili e innominabili torture e l’intervento segreto degli Stati Uniti, tutti insieme. Naturalmente non esistono prove di una relazione tra questi tre elementi, né motivi per sospettare un qualche tipo di legame. Eppure ero certo che le tre cose fossero inscindibili. Perché vent’anni dopo o giù di lì erano tornati tutti a Miami per un’allegra rimpatriata: Doakes, Chutsky e l’artefice della cosa sul tavolo. Sembrava che i fatti cominciassero ad andare al loro posto.
Avevo scoperto la mia piccola pista. Se solo avessi trovato un modo per utilizzarla…
Cucù, Albert.
Naturalmente, una faccenda è disporre di informazioni pronte all’uso, un’altra è capirne il significato e riuscire a usarle. In verità, sapevo soltanto che, nel momento in cui in Salvador erano accaduti fatti terribili, Doakes c’era. Poteva non essere stato lui l’esecutore diretto, comunque erano stati autorizzati dal governo.
In segreto, ovviamente; e veniva da chiedersi come mai tutti lo sapessero.
D’altra parte, c’era ancora in giro qualcuno che voleva tenere la cosa sotto silenzio. E al momento quel qualcuno era Chutsky, al quale la mia cara sorella Deborah doveva fare da chaperon. Con la sua collaborazione, forse sarei riuscito a estorcere qualche dettaglio in più da quell’uomo. Cosa avrei fatto dopo era ancora da vedere, ma almeno potevo mettermi in azione.
Sembrava troppo facile. E lo fu, come no? Chiamai subito Deborah e trovai la segreteria telefonica. Provai al cellulare con lo stesso risultato. Per l’intera giornata mia sorella era «fuori ufficio, lasciate un messaggio, prego». La sera, quando provai a casa sua, la situazione non cambiò. Mentre riattaccavo, guardai fuori dalla finestra del mio appartamento: il sergente Doakes era fermo nel suo posto preferito, dall’altro lato della strada.
Una mezza luna spuntò dai brandelli di una nube e mi sussurrò qualcosa. Fiato sprecato. Non contava quanto avrei desiderato uscire di soppiatto a giocare con Reiker, tanto non potevo, non con quella orribile Taurus marrone parcheggiata fuori come una coscienza da quattro soldi. Distolsi lo sguardo alla ricerca di qualcosa da prendere a calci. Ecco, era venerdì sera e mi impedivano di passeggiare nel buio con il mio Passeggero Oscuro… e adesso non riuscivo neanche a trovare mia sorella al telefono. La vita è tragica, a volte.
Camminai per un po’ su e giù per l’appartamento senza combinare nulla, a parte consumare le scarpe. Chiamai Deborah altre due volte: continuava a non essere a casa. Guardai di nuovo fuori dalla finestra. La luna si era mossa lentamente, Doakes no.