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«Una leccia», spiegai. «È un osso duro.» Mi chinai per liberarlo, ma si agitava così tanto che non riuscii a prenderlo. Un rivoletto di sangue gli usciva dalla bocca e colava sul ponte lindo e pulito. La cosa mi sconcertò un po’. «Che schifo», brontolai. «Deve aver ingoiato l’amo. Dobbiamo tirarglielo fuori.» Estrassi il mio coltello da carne dalla custodia di plastica nera e lo posai sul ponte. «Ci sarà parecchio sangue», avvisai Cody. Non amo il sangue, e non lo voglio sulla mia barca, neanche quello di un pesce. Feci due passi in avanti per aprire l’armadietto e presi un vecchio asciugamano che tengo per pulire.

«Ah», sentii dietro di me a bassa voce. Mi voltai.

Cody aveva preso il coltello e l’aveva piantato nel pesce. Lo guardava, mentre si dibatteva e poi glielo conficcava di nuovo dentro, con cura. La seconda volta affondò la lama nelle branchie, facendo schizzare un bel po’ di sangue sul ponte.

«Cody», dissi.

Lui mi guardò e, meraviglia delle meraviglie, sorrise. «Mi piace pescare, Dexter», dichiarò.

10

Era da lunedì mattina che non riuscivo a contattare Deborah. La chiamavo di continuo, tanto che avevo persino imparato a memoria la voce nella segreteria, lei però non rispondeva. Era sempre più frustrante. Mi si prospettava una via d’uscita dall’asfissiante controllo di Doakes e non riuscivo a fare un passo più in là del telefono. È terribile dover dipendere dagli altri.

Ma le mie virtù da boyscout contemplano anche la pazienza e la perseveranza. Lasciai dozzine di messaggi, tutti allegri e brillanti. E il mio ottimismo deve aver funzionato, perché alla fine ricevetti una risposta.

Ero seduto alla scrivania, stavo terminando una relazione su un caso di duplice omicidio, piuttosto banale. Un’unica arma, forse un machete, e pochi istanti di follia. Le prime ferite erano state inferte sul letto, dove apparentemente le vittime erano state colte in flagrante. L’uomo era riuscito a sollevare un braccio, anche se un po’ troppo tardi per proteggersi la gola. La donna stava correndo verso la porta quando era stata colpita alla parte superiore della spina dorsale, spruzzando fiotti di sangue sulla parete vicino allo stipite. La solita routine che caratterizzava gran parte del mio lavoro e lo rendeva estremamente spiacevole. Due esseri umani contengono così tanto sangue che, quando qualcuno decide di farglielo schizzare fuori tutto in una botta, crea un caos inimmaginabile, che offende il gusto. Classificarlo e analizzarlo mi fa sentire molto meglio e trovo che in quei momenti il mio lavoro possa riservare delle soddisfazioni.

Ma stavolta avevano davvero esagerato. Avevo trovato uno schizzo sul ventilatore da soffitto, forse proveniente dalla lama del machete mentre l’assassino alzava il braccio tra un colpo e l’altro. E siccome le pale giravano, c’erano macchie di sangue anche negli angoli più lontani della stanza.

Era stata una giornata dura per Dexter. Proprio mentre stavo componendo un paragrafo del rapporto teso a spiegare che si trattava del cosiddetto «delitto passionale», squillò il telefono.

«Ehi, Dex», disse la voce. Era così tranquilla, quasi addormentata, che mi ci volle un attimo prima di capire che si trattava di Deborah.

«Dunque», osservai, «le dicerie sulla tua morte erano ingiustificate.»

La sua risata suonava distesa, non nevrotica come al solito. «Sì», rispose, «sono ancora viva. Ma Kyle mi ha tenuto molto impegnata.»

«Rammentagli i diritti dei lavoratori, sorellina. Anche i sergenti hanno bisogno di riposo.»

«Mmm, non so», replicò. «Anche senza sto davvero bene.» E scoppiò in una risatina roca che non era da lei; ci mancava solo che mi chiedesse qual era il modo migliore per fare a pezzi un essere umano.

Tentai di ricordare in quale altra occasione Deborah avesse dichiarato di stare «davvero bene» senza mentire. Non mi venne in mente nulla. «Sembri molto strana, Deb», notai. «Che cosa diavolo ti è successo?»

Stavolta la sua risata fu un po’ più lunga, ma sempre allegra. «Il solito», rispose. Scoppiò di nuovo a ridere. «Comunque, cosa c’è?»

«Oh, nulla», risposi innocentemente. «La mia unica sorella scompare per giorni e notti senza dirmi una parola e finalmente ricompare come se fosse uscita da La sergente perfetta. Ammetterai che possa essere curioso di sapere che cosa diavolo sta succedendo, no?»

«Diamine», ribatté lei. «Sono commossa. Mi sembra quasi di avere per fratello un essere umano.»

«Spero che continui a restare un quasi.»

«Che ne dici se pranziamo insieme?»

«Ho già appetito», dissi. «Relampago?»

«Mmm, no. Perché non andiamo all’Azul?»

Immaginai che la scelta del ristorante desse un senso ulteriore al suo comportamento precedente, che di senso non ne aveva. A Deborah piaceva mangiare alla buona e l’Azul era il classico posto dove pranzava la famiglia reale saudita quando veniva in città. A prima vista, la sua trasformazione in aliena sembrava ormai completata.

«All’Azul, di sicuro. Vado a vendere la macchina per pagare il pranzo e ti raggiungo là.»

«All’una», aggiunse. «E non preoccuparti per i soldi. Paga Kyle.» Riattaccò. In verità non saltai su con un «Aha!» ma mi si accese una lucina.

Avrebbe pagato Kyle, eh? Bene, bene. E pure all’Azul.

Se la scintillante e pacchiana South Beach era la zona di Miami riservata alle aspiranti celebrità, l’Azul era il luogo adatto per gli amanti del glamour. I piccoli caffè che affollavano South Beach facevano a gara per attirare l’attenzione, strombazzando con insistenza felicità a buon mercato. L’Azul al paragone era così discreto che ti veniva da chiederti se i proprietari avessero mai visto anche solo una puntata di Miami Vice.

Affidai l’auto all’addetto al parcheggio in una piccola area lastricata di fronte al locale. Ci tengo alla mia macchina, ma ammetto che non faceva una gran figura davanti alla fila di Ferrari e Rolls-Royce. Comunque l’addetto non si rifiutò di parcheggiarla, anche se deve aver indovinato che non avrebbe ricevuto la mancia a cui era abituato. Suppongo che la mia camicia da bowling e i miei pantaloni color kaki testimoniassero senza ombra di dubbio che non avevo titoli al portatore o monete d’oro da rifilargli.

Il ristorante era così scuro e silenzioso che avresti potuto sentir cadere un’American Express Oro. Sulla parete opposta, in vetro fumé, una porta conduceva fuori in terrazza. E Deborah era lì, seduta a un tavolino d’angolo, che guardava il mare. Di fronte a lei, rivolto verso l’interno del locale, c’era Kyle Chutsky, l’uomo che avrebbe pagato il pranzo. Portava un paio di occhiali da sole molto costosi e quindi, forse, l’avrebbe fatto davvero. Mi avvicinai al tavolo e si materializzò un cameriere che mi tirò indietro una sedia, di certo troppo pesante per tutti quelli che potevano permettersi di mangiare lì. Di fatto il cameriere non fece un inchino, ma si vedeva che gli costava sforzo.

«Ehi, amico», esordì Kyle mentre mi sedevo. Mi porse la mano attraverso la tavola. Dato che sembravo essere diventato il suo nuovo amico, mi protesi verso di lui e gliela strinsi. «Come va la storia delle macchie?»

«Ho sempre un sacco di lavoro», risposi. «E come va la storia del misterioso visitatore da Washington?»

«Meglio di così», replicò. Mi tenne la mano nella sua per un po’. Abbassai lo sguardo; aveva le nocche appiattite, come se avesse passato troppo tempo ad allenarsi contro un muro di cemento. Batté la mano sinistra sul tavolo e io lanciai un’occhiata al suo anello da mignolo. Era stranamente effeminato, sembrava quasi un anello da fidanzamento. Quando finalmente mi lasciò andare, sorrise e si girò verso Deborah, anche se con quegli occhiali era impossibile dire se la stesse guardando.