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Strano che il padrone di casa fosse riuscito a scomparire in quel modo. Comunque lui ce l’aveva fatta, e senza nessuno che gli alitasse sul collo o lo costringesse a ritirarsi preso dal panico e dalla fretta… significava che l’aveva fatto volutamente, era parte del piano.

Voleva dire che aveva un altro posto dove rifugiarsi. Magari sempre nei dintorni di Miami, visto che Kyle era venuto a cercarlo qui. Era un punto di partenza e l’avevo trovato tutto da solo. Bentornato a casa, Mister Cervello.

Le proprietà immobiliari lasciano orme molto visibili, anche quando si tenta di cancellarle. Un quarto d’ora davanti al computer e avevo trovato qualcosa: se non era una vera e propria traccia, almeno ci assomigliava.

La casa sulla North West 4th Street era registrata a nome di Ramon Puntia. Non so quanto si aspettasse di farla franca a Miami, ma Ramon Puntia era un nome cubano che sapeva di fasullo. Eppure casa e tasse erano state pagate, una soluzione sensata per un amante della privacy come supponevo fosse il nostro nuovo amico. L’abitazione era stata acquistata con un unico pagamento in contanti, trasmesso da una banca del Guatemala. Il che mi sembrò piuttosto singolare; se le nostre tracce partivano dal Salvador e conducevano nei recessi di una misteriosa agenzia governativa a Washington, perché svoltavano a sinistra, in Guatemala? Un breve studio online sul riciclaggio di denaro dimostrò che aveva senso. In apparenza la Svizzera e le isole Cayman erano passate di moda e se qualcuno era alla ricerca di una banca discreta nel mondo ispanico, il Guatemala era all’ultimo grido.

Questo sollevò l’interessante questione su quanti soldi avesse Dottor Smembra e da dove venisse. Ma era un interrogativo che per ora non portava a nulla. Adesso che aveva utilizzato la prima casa, dovevo supporre che avesse denaro sufficiente per acquistarne una nuova, magari una che rientrasse nella stessa fascia di prezzo.

Okay. Tornai al database immobiliare di Dade County e cercai altre proprietà che fossero state acquistate di recente nella stessa maniera, dalla stessa banca. Erano sette: quattro erano state vendute per più di un milione di dollari, che mi sembrò un po’ troppo per una casa da sacrificare. Dovevano essere state acquistate da qualcuno non più sinistro dei soliti signori della droga o da qualche miliardario caduto in disgrazia.

Le tre proprietà rimaste mi sembravano le più probabili. Una si trovava in Liberty City, una zona degradata del centro storico di Miami a predominanza nera. Ma a un controllo più accurato risultò che si trattava di un condominio.

Una delle altre due proprietà era a Homestead, con vista sulla gigantesca discarica cittadina soprannominata Monte Pattumiera. L’ultima si trovava sempre a sud della città, proprio fuori Quail Roost Drive.

Due case: ero pronto a scommettere che in una di esse si era appena trasferito un nuovo inquilino. E che era capace di cose che avrebbero terrorizzato il comitato di benvenuto. Non ne ero certo, ovvio, ma poteva essere una possibilità e, tra l’altro, era quasi ora di pranzo.

Il Baleen era un locale molto costoso che non mi sarei potuto permettere viste le mie modeste entrate. I pannelli in rovere gli conferivano quell’eleganza che ti faceva subito sentire il bisogno di indossare un foulard o un paio di ghette. Aveva anche la miglior vista della città su Biscayne Bay, se avevi la fortuna di capitare in certi tavoli.

O Kyle era fortunato o era riuscito a ipnotizzare il capocameriere, perché lui e Deborah mi aspettavano proprio a uno di quei tavoli, davanti a una bottiglia di acqua minerale e a un piatto di crocchette di granchio. Ne presi una e le diedi un morso, sedendomi di fronte a Kyle.

«Gnam», commentai. «Ecco dove vanno i granchi buoni quando muoiono.»

«Debbie dice che hai qualcosa per noi», fece lui. Guardai mia sorella, che si era sempre chiamata Deborah o Debs, ma mai Debbie, sicuro. Comunque lei non aprì bocca, e sembrava disposta a concedergli quel gran privilegio, così tornai a rivolgere la mia attenzione a Kyle. Portava di nuovo gli occhiali firmati e quel ridicolo anello da mignolo che brillava tutte le volte che si tirava indietro i capelli con noncuranza.

«Me lo auguro», dissi. «Ma starò attento a non finire giù per lo sciacquone.»

Kyle mi squadrò a lungo, poi scosse la testa e schiuse le labbra di qualche millimetro in un sorriso riluttante.

«D’accordo», borbottò. «Hai vinto. Eppure ti sorprenderebbe sapere quante volte funziona, quel tipo di battuta.»

«Resterò di sicuro senza fiato», ribattei, passandogli la stampata del mio computer. «Per caso vuoi dargli un’occhiata, mentre tento di respirare?»

Kyle aggrottò le sopracciglia e aprì il foglio. «Che cos’è?»

Deborah si avvicinò, col suo tipico entusiasmo da detective. «Hai trovato qualcosa! Sapevo che ce l’avresti fatta», esclamò.

«Sono solo due indirizzi», replicò Kyle.

«Uno dei due potrebbe corrispondere facilmente a un chirurgo dai metodi poco ortodossi con un passato in America Centrale», dissi, e gli spiegai come avevo trovato gli indirizzi. Va a suo merito che sembrò impressionato, anche attraverso gli occhiali da sole.

«Avrei dovuto pensarci», ammise. «Hai fatto bene.» Annuì e diede un colpetto al foglio col dito. «Segui il denaro. Funziona sempre.»

«Ovviamente non ne ho la certezza», dissi.

«Be’, sono pronto a scommetterci», dichiarò lui. «Credo che scoverai il dottor Danco.»

Guardai Deborah. Lei scosse il capo, tornai a fissare gli occhiali di Kyle. «Nome interessante. È polacco?»

Chutsky si schiarì la gola e guardò fuori, verso il mare. «Non eri ancora nato, credo. A quei tempi c’era una pubblicità: Danco presenta il Tritatutto. Sa sminuzzare e tagliare a dadini…» Voltò le lenti scure verso di me. «Per questo l’abbiamo battezzato dottor Danco. Perché fa i vegetali a pezzetti. È il genere di humour che ti viene quando sei lontano da casa e vedi cose orribili.»

«Com’è che ora le vediamo lo stesso anche vicino a casa?» domandai. «Che cosa ci fa qui?»

«È una lunga storia», sospirò Kyle.

«Vuol dire che non gli va di raccontartela», osservò Deborah.

«Allora mangio un’altra crocchetta», feci. Mi sporsi e presi l’ultima del piatto. Erano davvero squisite.

«Avanti, Chutsky», lo incoraggiò Deborah. «Abbiamo buone probabilità di sapere dove sta questo tipo. Che cosa intendi fare?»

Lui posò una mano sulle sue e sorrise. «Pranzare», rispose. E con la mano libera prese il menù.

Deborah rimase a scrutarlo per un minuto. Poi allontanò la mano. «Merda», fu il suo commento.

Il cibo era davvero eccellente e Chutsky fece l’impossibile per apparire simpatico e cordiale; aveva deciso che, non potendo dire la verità, doveva almeno mostrarsi piacevole.

Onestamente non potevo lamentarmi, dato che in genere per farla franca ricorro allo stesso stratagemma, Deborah però non sembrava molto contenta. Esaminava imbronciata il contenuto del piatto mentre Kyle raccontava barzellette e mi chiedeva se secondo me i Miami Dolphins ce l’avrebbero fatta quest’anno. Per me potevano anche vincere il Nobel per la Letteratura, ma, da bravo essere umano artificiale quale sono, avevo pronte diverse osservazioni in materia che sembrarono soddisfare Chutsky, il quale ne discusse con la maggior cordialità possibile.

Prendemmo anche il dessert ed ebbi la sensazione che l’espediente di usare il cibo come diversivo si stesse spingendo un po’ troppo in là, anche perché né io né Deborah ci lasciavamo distrarre. Comunque la cucina era davvero deliziosa e lamentarsi sarebbe stato barbaro.

Ma Deborah aveva dedicato una vita intera a specializzarsi in barbarie. Il cameriere piazzò un’enorme roba di cioccolato davanti a Chutsky, che si voltò verso di lei con in mano due forchette dicendo: «Be’…»