«Merda», ripeté lei. Si mangiò un’unghia, cosa che le avevo visto fare solo quando era ragazzina. Doveva essere buona, perché dopo quella ne attaccò un’altra. Era impegnata con la terza quando la porta della casetta si aprì e ne uscì Chutsky, sorridendo e salutando. Quando si richiuse, le nuvole avevano finalmente deciso di sfogarsi e il nostro uomo scomparve in mezzo alla pioggia. Corse rumorosamente verso la macchina e saltò gocciolante sul sedile anteriore.
«Dannazione!» esclamò. «Mi sono bagnato!»
«Che cosa cazzo significa tutto questo?» domandò Deborah.
Chutsky mi guardò alzando un sopracciglio e si tirò indietro i capelli. «Non la trovi raffinata?» disse.
«Maledizione, Kyle», fece lei.
«L’ammoniaca», spiegò lui, «non viene usata per scopi chirurgici né la adotterebbe un’impresa di pulizie.»
«Ne abbiamo già parlato», saltò su Deborah.
Lui sorrise. «Invece viene usata per sintetizzare metanfetamine», aggiunse. «Ed è quello che stavano facendo quelli là.»
«Sei entrato in uno di quei laboratori?» si stupì Deb. «E che cosa diavolo ci sei andato a fare?»
Lui sorrise ed estrasse una bustina dalla tasca. «A comprare trenta grammi di meth», rispose.
13
Deborah non parlò per quasi dieci minuti, si limitò a guidare e a fissare la strada con la mascella serrata. Riuscivo a vedere i suoi nervi tesi, dalla faccia fino alle spalle. Conoscendola, avrei quasi giurato che fosse pronta a esplodere. Non avrei però saputo dire quando, dato che non immaginavo come avrebbe reagito da innamorata. Il bersaglio dell’imminente sfuriata era seduto davanti, al suo fianco. Anche lui taceva, e sembrava piuttosto contento di starsene tranquillo a osservare il paesaggio.
Eravamo quasi arrivati alla seconda abitazione, praticamente all’ombra del Monte Pattumiera, quando Debs alla fine scoppiò. «Dannazione, quella roba è illegale!» esclamò, sbattendo il palmo della mano sul volante a sottolineare il concetto.
Chutsky la guardò tiepido. «Sì, lo so», rispose.
«E io sono un tutore della legge, cazzo!» continuò Deborah. «Io ho promesso sotto giuramento di fermare questa merda… e tu…!» Si interruppe, balbettando.
«Dovevo avere una conferma», disse lui tranquillo. «E questo mi è sembrato il modo migliore.»
«E a te che dovrei mettere le manette!» continuò Debs.
«Sarebbe divertente», fece lui.
«Razza di figlio di puttana!»
«E dici poco.»
«Io non ci vengo nel tuo fottutissimo lato oscuro!»
«No, non lo farai», ribatté lui. «Non te lo permetterò, Deborah.»
Lei rimase senza fiato e si voltò a guardarlo. Chutsky ricambiò lo sguardo. Non avevo mai assistito a una conversazione silenziosa, e questa era davvero unica. Gli occhi di Debs saltavano ansiosamente da una parte all’altra del viso di lui. Lui si limitava a fissarla, con calma. Era tutto così raffinato e intrigante, quasi curioso, almeno quanto il fatto che Deborah sembrava essersi dimenticata di trovarsi al volante.
«Mi spiace interrompervi», intervenni. «Ma mi sembra che davanti a noi ci sia un TIR pieno di birra.»
Debs si guardò intorno di colpo e frenò, appena prima che diventassimo l’adesivo sul paraurti del camion di Miller Light. «Trasmetterò quell’indirizzo all’Antidroga. Domani», dichiarò.
«D’accordo», fece Chutsky.
«E tu butterai via quella bustina.»
Lui la guardò piuttosto sorpreso. «L’ho pagata duemila dollari», fece.
«Tu la butterai», ripeté lei.
«D’accordo», disse. Si guardarono di nuovo negli occhi, lasciando che fossi io a badare ai letali camion di birra. Tuttavia, era bello vedere che tutto si sistemava e l’armonia tornava a regnare nell’universo: finalmente avremmo potuto dedicarci a scovare il mostro disumano della settimana, certi che l’amore trionfa sempre. Dunque era davvero soddisfacente percorrere la South Dixie Highway al termine della tempesta.
Quando spuntò il sole, svoltammo in una strada che ci condusse in un labirinto di viuzze, tutte con la terrificante vista sulla gigantesca discarica soprannominata Monte Pattumiera.
L’indirizzo che cercavamo si trovava proprio in mezzo all’ultima fila di case, zona di confine tra la civiltà e il luogo in cui l’immondizia regnava suprema. Era all’altezza della curva di una strada tortuosa e ci passammo due volte prima di essere certi che fosse proprio quella. Era una modesta costruzione del tipo tripla stanza da letto/doppia ipoteca, dipinta di giallino con i bordi bianchi e il prato ben curato. Nel vialetto e sotto la tettoia non si vedevano macchine; sul davanti un cartello con la scritta VENDESI era stato coperto da un altro che diceva VENDUTO! a vistose lettere rosse.
«Forse non si è ancora trasferito qui», provò a ipotizzare Deborah.
«Potrebbe essere ovunque», fece Chutsky. E contro quella sua logica non trovai nulla da obiettare. «Accosta. Hai un taccuino con una pinza?»
Deborah parcheggiò con una smorfia. «Sotto il sedile. Mi serve per lavoro.»
«Non te lo rovino», promise. Armeggiò per un istante sotto il sedile, poi tirò fuori una cartelletta di metallo a cui erano attaccati diversi moduli da compilare. «Perfetto», disse. «Dammi una penna.»
«Che cosa vuoi fare?» chiese lei, porgendogli una scadente biro bianca con il tappo blu.
«Nessuno ferma mai un uomo con la cartelletta», dichiarò Chutsky ridacchiando.
Prima che noi due potessimo dire qualcosa, era sceso dall’auto e attraversava il vialetto col passo sicuro del burocrate. Si fermò a metà strada a controllare la cartelletta, sfogliò e si mise a leggere alcune pagine, quindi guardò la casa scuotendo la testa.
«Sembra molto bravo in questo genere di cose», dissi a Deborah.
«Sarà meglio per lui», commentò lei. Si morsicò un’altra unghia. Presto sarebbe rimasta senza.
Chutsky continuò la passeggiata, consultando la cartelletta. Sembrava totalmente inconsapevole della strage di unghie che aveva luogo alle sue spalle. Appariva calmo e naturale. Ovviamente doveva avere una certa esperienza di raggiri e intrallazzi (non so quale parola fosse più adatta a descrivere le sue truffe legalizzate). E per colpa sua Deborah si mangiava le unghie e rischiava di andare a sbattere contro camion pieni di birra. Tutto sommato, quell’uomo non aveva un’influenza molto positiva su mia sorella, anche se il fatto che lei avesse un altro con cui mettere il muso e da prendere a pugni non mi dispiaceva affatto. Ero sempre pronto a lasciare che qualcuno si facesse male al posto mio.
Chutsky si fermò davanti all’ingresso principale e si mise a scrivere qualcosa. Poi aprì la porta, non chiedetemi come, ed entrò chiudendola alle sue spalle.
«Merda», sibilò Deborah. «Scasso e violazione di domicilio, oltre al possesso di stupefacenti. La prossima volta mi farà dirottare un aereo.»
«Ho sempre desiderato vedere L’Avana», cercai di sdrammatizzare.
«Ha due minuti», dichiarò laconica. «Poi chiamo i rinforzi e vado a cercarlo.»
A un minuto e cinquantanove secondi la mano di Deborah partì verso la radio, ma la porta si riaprì e ne uscì Chutsky. Si fermò nel vialetto, scrisse qualcosa sul taccuino e tornò alla macchina.
«Bene», dichiarò mentre si sedeva. «Torniamo a casa.»
«Era vuota?» chiese Deborah.
«Completamente», fece lui. «Non un asciugamano, né una lattina.»
«E ora che si fa?» chiese lei mettendo in moto.
Chutsky scosse lentamente il capo. «Si torna al piano A», rispose.
«In che cazzo consiste il piano A?» domandò lei.
«Nell’avere pazienza», rispose Chutsky.
Così, dopo un delizioso pranzetto seguito da un singolare giro di shopping, tornammo ad aspettare.