Passò una settimana della solita noiosa routine. Il sergente Doakes non sembrava arrendersi, nonostante la mia trasformazione in panciuto soprammobile da divano fosse ormai completa. Non trovavo di meglio da fare se non giocare a nascondino o all’Impiccato con Cody e Astor, e inscenare teatrali baci con Rita per la gioia del mio pedinatore.
Poi, nel bel mezzo della notte, squillò il telefono. Il giorno dopo, lunedì, dovevo svegliarmi presto per andare al lavoro; ero d’accordo con Vince Masuoka: l’indomani toccava a me comprare le ciambelle. Ed ecco il telefono che suonava spudorato, come se io non avessi altre responsabilità e le ciambelle si comprassero da sole. Guardai l’orologio sul comodino: le 2.38. Riconosco che quando alzai la cornetta ero piuttosto nervoso.
«Lasciami in pace», dissi.
«Dexter. Kyle è sparito», fece Deborah. Sembrava distrutta, tesissima e indecisa se sparare a qualcuno o mettersi a piangere.
Mi ci volle un attimo per mettere in funzione il mio mirabile cervello.
«Uh, be’, Deb», borbottai, «uno come lui è meglio perderlo che…»
«È scomparso, Dexter. Rapito. Il… il tipo l’ha preso. Il tipo che ha combinato quella roba all’altro», spiegò. Anche se mi sembrava di essere stato sbattuto davanti a una puntata dei Soprano, capii che cosa intendeva. Quello che aveva trasformato la cosa sul tavolo in una specie di patata urlante aveva preso Kyle e probabilmente voleva fare qualcosa di simile anche a lui.
«Il dottor Danco», dissi.
«Sì.»
«Come lo sai?» le chiesi.
«Kyle aveva detto che c’era quel rischio. Lui era l’unico che lo poteva riconoscere. Mi aveva detto che, quando Danco avesse scoperto che Kyle era qui, ci avrebbe provato. Noi avevamo un… un segnale convenzionale, e… Merda, Dexter, vieni subito qui. Dobbiamo trovarlo», e riattaccò.
Sempre a me, non vi pare? Non sono una persona particolarmente gentile, ma chissà per quale motivo è sempre me che chiamano quando hanno un problema. Oh, Dexter, un mostro violento e disumano ha catturato il mio fidanzato! Be’, dannazione, anch’io sono un mostro violento e disumano… Non dovrei per questo avere il diritto di starmene in pace?
Sospirai.
A quanto pareva, no.
Sperai che Vince non facesse storie per le ciambelle.
14
Da casa mia nel Grove ci voleva un quarto d’ora di macchina per arrivare da Deborah. Per una volta non vedevo il sergente Doakes che mi seguiva, ma forse stava usando lo schermo di invisibilità klingoniano. In ogni caso il traffico era scarso e riuscii ad arrivare alla US1. Deborah viveva in una casetta sulla Medina Street a Coral Gables, circondata da alberi da frutto selvatici e da un muro fatiscente di roccia corallina. Parcheggiai l’auto nel vialetto, dietro alla sua, e non avevo ancora fatto due passi che lei spalancò la porta. «Dove sei stato?» chiese.
«A lezione di yoga e poi al centro commerciale a comprarmi un paio di scarpe», risposi. Per la verità, mi ero sbrigato sul serio per arrivare lì in meno di venti minuti dalla sua chiamata, e trovai quel tono vagamente seccante.
«Entra», disse, scrutando nel buio e aggrappandosi alla porta quasi avesse paura di volare via.
«Sì, Mia Regina», mormorai ed entrai.
La casa di Deborah era elegantemente arredata in stile «niente vita sociale». Di solito la zona giorno assomigliava a una modesta camera d’albergo in cui avesse pernottato un gruppo rock. Sembrava che qualcuno avesse fatto piazza pulita di tutto, a eccezione della tivù e del videoregistratore. C’erano solo una sedia e un tavolino accanto alla portafinestra che dava sul terrazzo, sommerso in un intrico di cespugli. Ma da qualche parte Deborah aveva trovato un’altra sedia pieghevole e traballante e l’aveva infilata sotto il tavolo. Fui talmente colpito dalla sua ospitalità che rischiai la vita e mi sedetti su quell’affare così instabile.
«Da quanto tempo è scomparso?»
«Merda», sospirò. «Da circa tre ore e mezza. Credo.» Scosse la testa e si accasciò sull’altra sedia. «Dovevamo incontrarci qui, e… non si è visto. Sono andata al suo albergo e non c’era.»
«Non può essersene andato via chissà dove?» chiesi. Mi vergogno a dirlo, ma ammetto che ci sperai.
Deborah fece cenno di no col capo. «Il suo portafogli e le chiavi erano ancora sul comò. Quel tipo se l’è preso, Dex. Noi dobbiamo trovarlo prima che…» Si morse un labbro e guardò altrove.
Non sapevo bene come muovermi per scovare Kyle. Come ho già detto, questo non è il tipo di situazione in cui mi vengono brillanti intuizioni e avevo già dato il meglio di me con la storia dell’agenzia immobiliare. Ma, dal momento che Deborah aveva detto «noi», capii di non avere molta scelta. Legami di famiglia e tutto il resto. Buttai lì: «So che ti sembrerà stupido, Debs… hai fatto denuncia?»
Lei alzò lo sguardo, sbuffando. «Certo! Ho chiamato il capitano Matthews. Sembrava sollevato. Mi ha detto di non fare l’isterica, neanche fossi una di quelle che hanno bisogno dei sali.» Scosse il capo. «Gli ho chiesto di dare l’allarme e lui mi ha detto ’Per cosa?’» Sospirò. «Per cosa… Dannazione, Dexter, avrei voluto strozzarlo, ma…»
«Ma aveva ragione», dissi.
«Già. Kyle è l’unico che sa com’è fatto il mostro», replicò. «Noi non sappiamo che macchina abbia o come si chiami veramente o… Merda, Dexter. L’unica cosa certa è che ha preso Kyle.» Respirava a fatica. «Comunque, Matthews ha avvisato gli uomini di Kyle a Washington. Ha detto che di più non poteva fare.» Scosse la testa, sembrava davvero triste. «Manderanno qualcuno martedì mattina.»
«Bene…» feci speranzoso. «Insomma… sappiamo che il nostro uomo lavora molto lentamente.»
«Martedì mattina», ripeté lei. «Sono quasi due giorni. Da dove pensi che comincerà, Dex? Gli taglierà prima una gamba? O un braccio? O tutti e due insieme?»
«No. Uno per volta.»
Debs mi guardò, dura.
«Ha un senso, ti pare?»
«Non per me», replicò lei. «Niente di tutto questo ha un senso.»
«Deborah, ciò che interessa il nostro uomo non è semplicemente tagliare gambe e braccia. Quello che conta è il modo in cui lo fa.»
«Dannazione, Dexter, parla chiaro.»
«Ciò che vuole è distruggere completamente le sue vittime. Spezzarle dentro e fuori, in modo che non possano guarire. Trasformarle in baccelli urlanti destinati a sperimentare soltanto un orrore folle e senza fine. Tagliare gli arti e le labbra è semplicemente il modo per… Cosa?»
«Oh, Gesù, Dexter», mi interruppe Deborah. Non le avevo più visto quella faccia da quando era morta la mamma. Si voltò, tremante. Mi sentii vagamente a disagio. Voglio dire, io non provo emozioni, mentre Deborah sì, anche piuttosto sovente. Ma non è il tipo che lo dà a vedere, a meno che arrabbiarsi non si consideri un’emozione. E adesso singhiozzava e piangeva. Immagino che forse avrei dovuto darle una pacca sulla spalla dicendole «Su, su» o qualcosa di ugualmente umano e profondo. Eppure per me non era facile. Si trattava di Deb, mia sorella. Lei avrebbe capito che stavo fingendo e…
E cosa? Mi avrebbe forse amputato braccia e gambe? Il peggio che avrebbe potuto fare sarebbe stato intimarmi di smetterla e poi tornare a fare il Sergente Musone. E sarebbe stato un grande miglioramento visto il suo attuale stato d’animo. Comunque sia, questo era uno dei momenti in cui mi si richiedeva una reazione da essere umano e, dato che dopo lunghi studi sapevo in che modo avrebbe reagito un uomo, lo feci. Mi alzai e le andai vicino. Le misi un braccio intorno alla spalla, le diedi un colpetto e mormorai: «Va tutto bene, Deb. Su, su». Mi sembrò ancora più stupido di quanto avessi temuto, ma lei si appoggiò a me e tirò su col naso, quindi immagino che dopotutto fosse la cosa più giusta da fare.