«Riusciresti a innamorarti di qualcuno in una settimana?» mi domandò.
«Credo proprio di no», risposi.
«Non ce la faccio, Dexter», sussurrò. «Se Kyle venisse ucciso o trasformato in un… Oddio, non so che cosa farei.» Crollò di nuovo addosso a me e pianse.
«Su, su», ripetei.
Debs tirò su forte col naso, poi se lo soffiò in un fazzolettino di carta che era sul tavolo. «Non dirlo più», mi ordinò.
«Mi spiace», feci. «Non so che altro dirti.»
«Dimmi che cosa sta combinando quel tipo. E come trovarlo.»
Tornai a sedermi sulla sedia traballante. «Non credo di esserne in grado, Deb. Non riesco proprio a immedesimarmi in lui.»
«Stronzate.»
«Sul serio. Insomma, tecnicamente, non ha ammazzato nessuno.»
«Dexter», ribatté Deb, «finora su di lui hai scoperto più cose tu di Kyle che lo conosce. Dobbiamo trovarlo. A ogni costo.» Si morse il labbro inferiore e temetti che riprendesse a singhiozzare. Stavolta non avrei più saputo che cosa fare, visto che prima mi aveva impedito di dire «Su, su». Ma lei tornò a essere l’impavida sorella sergente che conoscevo e si limitò a soffiarsi il naso.
«Ci proverò, Deb. Tu e Kyle avete già fatto il lavoro di base? Avete sentito i testimoni eccetera?»
Lei scosse il capo. «Non ne avevamo bisogno. Kyle sapeva…» Si interruppe, notando che stava parlando al passato, poi proseguì, agguerrita. «Kyle sa chi l’ha fatto e sa chi sarà il prossimo.»
«Scusami. Lui sa chi sarà il prossimo?»
Deborah si incupì. «Non esattamente. Kyle mi ha detto che ci sono quattro persone di Miami sulla lista. Uno di loro è scomparso. Kyle pensava che fosse già stato catturato, intanto questo ci ha permesso di far sorvegliare gli altri tre.»
«Chi sono questi quattro, Deborah? E Kyle come sa della loro esistenza?»
Lei sospirò. «Non mi ha detto come si chiamavano. Ma facevano tutti parte di una specie di squadra. In Salvador. E con loro c’era quel… dottor Danco.» Allargò le braccia e la vidi fragile, fatto del tutto inedito per mia sorella. Anche se l’aspetto da ragazzina indifesa le donava, l’unico effetto che ebbe su di me fu di farmi sentire sfruttato. Il mondo intero gira allegramente, si va a cacciare nelle situazioni peggiori e poi tocca al Defilato Dexter sistemare le cose. Non mi sembrava bello, ma che cosa potevo farci?
E in particolare… che cosa potevo fare ora? Non avevo idea di come trovare Kyle prima che fosse troppo tardi. E anche se ero sicuro di non averlo detto ad alta voce, Deborah reagì come se l’avessi fatto. Batté una mano sul tavolo e disse: «Dobbiamo trovarlo prima che cominci con Kyle. Prima che cominci, Dexter. Perché… cioè, forse dovrei sperare che prima del nostro arrivo Kyle ci rimetta soltanto un braccio? O una gamba? In ogni caso, Kyle è…» Si voltò senza finire di parlare, fissando il buio fuori dalla portafinestra.
Aveva ragione, ovvio. Avevo l’impressione che non ci fossero molte possibilità di riportare indietro Kyle intero. Perché, anche con tutta la fortuna del mondo, neppure il mio strabiliante intelletto sarebbe riuscito a condurci da lui prima che Danco si mettesse all’opera. E poi… quanto avrebbe potuto resistere Kyle? Forse aveva un certo allenamento con queste cose e sapeva a che cosa andava incontro, quindi…
Un momento.
Chiusi gli occhi e cercai di pensare. Il dottor Danco sapeva che Kyle era un professionista. E, come avevo già spiegato a Deborah, il suo obiettivo era trasformare la vittima in un vegetale urlante. Perciò…
Aprii gli occhi. «Deb», dissi. Lei mi guardò. «Ti sembrerà strano… ma c’è qualche speranza.»
«Sputa», fece.
«È solo un’ipotesi», dichiarai. «Però credo che il dottor Demente risparmierà Kyle per un po’, prima di agire su di lui.»
Deb aggrottò le sopracciglia. «Perché dovrebbe?»
«Per farlo durare di più e per indebolirlo. Kyle sa che cosa lo aspetta. È preparato. E ora immagino che l’abbia sdraiato nell’oscurità, mani e piedi legati, per lasciar lavorare la sua immaginazione. E quindi», aggiunsi, «credo che ci sarà un’altra vittima prima di lui. Il tipo scomparso. Così Kyle sentirà tutto… le seghe, gli scalpelli, i lamenti e i sussurri. Persino l’odore. E saprà che capiterà anche a lui, ma non saprà quando. Sarà mezzo impazzito prima ancora che gli stacchi un’unghia.»
«Gesù», mormorò Deborah. «E questo è il tuo concetto di speranza?»
«Certo. E ci dà un margine di tempo per trovarlo.»
«Gesù», ripeté lei.
«Potrei sbagliarmi», la misi in guardia.
Deb guardò fuori dalla finestra. «Non ti sbagliare, Dex. Non stavolta.»
Scossi la testa. Non sarebbe stato per nulla divertente. Mi venivano in mente soltanto due possibili piste e per entrambe bisognava aspettare la mattina. Mi guardai intorno alla ricerca di un orologio. Secondo il videoregistratore erano le 12.00. Le 12.00. Le 12.00. «Hai un orologio?» domandai.
«Che cosa te ne fai?» chiese Deborah contrariata.
«Voglio sapere che ore sono», dissi. «Di solito servono a quello.»
«Che cazzo ti cambia?» chiese lei.
«Deborah! Ora abbiamo molto poco su cui lavorare. Dobbiamo tornare indietro di qualche passo e fare tutto il lavoro di routine che Chutsky ha impedito di svolgere al dipartimento. Fortunatamente, puoi usare il tuo distintivo per andare in giro a fare domande. Ma dobbiamo aspettare il mattino.»
«Merda», fece. «Odio aspettare.»
«Su, su», la consolai. Deborah mi guardò acida, ma non disse nulla.
Neanche a me piaceva aspettare, però ultimamente non avevo fatto altro e forse ora mi riusciva più facile. In ogni caso, tirammo l’alba dormicchiando sulle sedie. Poi, dato che negli ultimi tempi il più casalingo dei due ero io, preparai il caffè per entrambi. Una tazza per volta, visto che la caffettiera di Deborah era di quelle singole, fatte per gente che non si aspetta di avere una gran vita sociale. In frigo non c’era nulla che fosse almeno lontanamente commestibile, se non per un cane randagio. Davvero seccante: Dexter è un ragazzo in salute e con un elevato metabolismo; per lui affrontare una giornata impegnativa a stomaco vuoto non è un’ottima prospettiva. D’accordo, la famiglia viene prima, ma non si può aspettare dopo colazione?
Ah, be’. Il Devoto Dexter si sacrifica ancora una volta. E per pura nobiltà di spirito, senza aspettarsi nessun ringraziamento. Si fa quel che si deve.
15
Il dottor Mark Spielman era un uomo robusto che somigliava più a un giocatore di football a riposo che a un medico del pronto soccorso. Era lui di turno quando l’ambulanza aveva trasportato la Cosa al Jackson Memorial Hospital, e non ne era affatto felice.
«Se mai mi capitasse di rivedere qualcosa del genere», ci disse, «andrei in pensione e mi metterei ad allevare bassotti.» Scosse il capo. «Voi sapete com’è il pronto soccorso qui al Jackson. È uno dei più affollati. Qui approdano i casi più folli di questa città, che già è una delle più folli del mondo. Ma questo…» Spielman diede due colpi sul tavolo della saletta verde pallido riservata al personale «… è un’altra faccenda», aggiunse.
«Qual è la prognosi?» domandò Deborah e lui la guardò severo.
«Mi prende in giro? Non c’è nessuna prognosi e non ci sarà mai. Dal punto di vista fisico, non si può fare altro se non mantenerlo in vita, se così possiamo chiamarla. Sul piano mentale…» Aprì le mani e le lasciò ricadere sul tavolo. «Non sono uno strizzacervelli, ma mi pare che a quell’essere non sia rimasto più nulla: non avrà più un barlume di lucidità, mai più. La sua unica speranza è restare sotto l’effetto dei farmaci tanto da non sapere più chi è finché non muore. Cosa che ci auguriamo gli accada al più presto.» Guardò l’orologio, un bel Rolex. «Ne avete ancora per molto? Sono in servizio, sapete.»