«Forse si sta solo facendo un giro», ipotizzai. «È una serata incantevole.»
«Vuoi scriverci un sonetto?»
Di solito, avrei risposto con una battuta geniale, ma stavolta, forse a causa di questo inseguimento così coinvolgente, non mi venne in mente nulla. E Debs si comportò come se godesse di questa sua vittoria, anche se piccola.
Qualche isolato più avanti, Oscar accelerò di colpo e svoltò in una viuzza sulla sinistra in mezzo al traffico in arrivo, provocando da entrambe le parti un intero concerto di clacson rabbiosi.
«Ha cambiato direzione», disse Deborah a Doakes. «Va a ovest sulla 135th Street.»
«Sono dietro di te», la avvisò Doakes, «sulla Broad Causeway.»
«Che cosa c’è sulla 135thStreet?» si domandò Deborah a voce alta.
«L’aeroporto Opa-Locka», risposi. «A circa tre chilometri e mezzo da qui.»
«Merda», brontolò e afferrò la radio. «Doakes… da questa parte c’è l’aeroporto Opa-Locka.»
«Sto arrivando», annunciò il sergente e sentii partire le sirene non appena lui spense la radio.
Opa-Locka era stato per lungo tempo famoso tra chi trafficava droga e chi svolgeva operazioni segrete. In realtà era una distinzione di comodo, visto che i confini tra le due attività erano spesso nebulosi. Era probabile che lì Oscar avesse un piccolo aereo ad aspettarlo, pronto a portarlo fuori dal Paese e verso un qualunque posto nei Caraibi, in America centrale o del sud, purché potesse mantenere i contatti col resto del mondo. Dubitai in ogni caso che avesse come meta il Sudan o Beirut. Era più probabile che si dirigesse da qualche parte nei Caraibi. In ogni caso, nella sua situazione, abbandonare il Paese sembrava una mossa ragionevole e l’aeroporto di Opa-Locka era il posto più logico da cui partire.
Adesso Oscar andava un po’ più veloce, anche se la 135th Street non era così ampia e comoda come il Biscayne Boulevard. Salimmo su un ponticello lungo il canale e non appena la nostra preda arrivò al fondo accelerò all’improvviso e svoltò in una curva a esse, facendo stridere le ruote in mezzo al traffico.
«Dannazione, sembra spaventato», osservò Deborah. «Deve averci riconosciuti.» Aumentò la velocità per non perderlo di vista, lasciando comunque due o tre macchine tra noi e lui, anche se a questo punto era impossibile continuare la finzione.
In effetti qualcosa doveva averlo spaventato, perché Oscar guidava come un pazzo, si gettava pericolosamente nel traffico e poi saltava sul marciapiede. Debs, ovviamente, non aveva intenzione di perdere la sfida. Gli rimase alle costole, zigzagando tra le automobili che tentavano ancora di riprendersi dal loro incontro ravvicinato con il SUV. Poco più avanti, il nostro uomo svoltò a sinistra in una viuzza. Una vecchia Buick sterzò di botto, poi urtò il marciapiede e si schiantò contro una recinzione per finire nel cortile di una casa azzurra.
Possibile che la vista della nostra piccola auto civetta avesse spinto Oscar a comportarsi così? Mi piaceva pensarlo e mi faceva sentire molto importante, ma non ci credetti… finora si era comportato in modo tranquillo ed equilibrato. Se avesse voluto sbarazzarsi di noi, si sarebbe probabilmente lanciato in qualche mossa astuta, tipo salire sul ponte mentre si stava alzando. Allora perché farsi prendere dal panico così all’improvviso? Proprio per far qualcosa, mi piegai in avanti e guardai nello specchietto laterale. Le lettere in stampatello riflesse mi dissero che gli oggetti erano più vicini di quanto sembrassero. Le cose erano come stavano, pensai tristemente, quando vidi apparire nello specchietto un unico oggetto.
Un vecchio furgone bianco.
Stava seguendo noi e anche Oscar. Faceva lo slalom nel traffico, alla nostra velocità. «Be’», osservai, «dopotutto non è uno stupido.» E alzai la voce per farmi sentire sopra lo stridio delle ruote e i clacson degli altri automobilisti. «Oh, Deborah…» feci. «Non per distrarti dai tuoi doveri di guidatrice, ma quando hai un momento, ti spiacerebbe guardare nello specchietto retrovisore?»
«Non capisco che cazzo vuoi dire», ringhiò, però diede lo stesso un’occhiata. Fu un vero colpo di fortuna che ci trovassimo su un rettilineo, perché per un secondo Debs si dimenticò che stava guidando. «Merda», sussurrò.
«Già, l’ho pensato anch’io», concordai.
Il cavalcavia dell’I-95 era diritto davanti a noi e poco prima di passarci sotto Oscar sbandò violentemente a destra, attraversando tre corsie. Quindi svoltò in una via laterale parallela alla superstrada. Deborah imprecò e virò per stargli dietro. «Avvisa Doakes!» esclamò, e io obbediente presi la radio.
«Sergente Doakes», esordii. «Non siamo soli.»
La radio emise un sibilo. «Che cazzo significa?» ringhiò Doakes, neanche avesse sentito la risposta di Deborah e gli fosse piaciuta al punto da ripeterla anche lui.
«Abbiamo appena girato a destra sulla 6th Avenue e c’è un furgone bianco che ci segue.» Non udii risposta, allora ripetei: «Te l’ho detto che è bianco?» e stavolta mi presi la soddisfazione di sentire Doakes grugnire. «Figlio di puttana.»
«Proprio quello che ho pensato anch’io», concordai.
«Lasciate andare avanti il furgone e stategli dietro», ordinò lui.
«No, merda», borbottò Deborah a denti stretti, poi disse di peggio. Fui tentato anch’io di aggiungere qualcosa di simile. Infatti mentre Doakes toglieva la comunicazione, Oscar imboccò il ponte della I-95 con noi all’inseguimento e all’ultimo secondo sterzò rapido e tornò indietro in discesa infilandosi nella 6th Avenue. Il suo 4Runner rimbalzò non appena toccò terra e vacillò per un attimo sulla destra, come se fosse ubriaco, infine accelerò e tirò dritto. Deborah inchiodò facendo un mezzo testa coda; il furgone bianco ci superò, saltando giù per la discesa, e coprì la distanza che lo separava dal 4Runner. Dopo mezzo secondo, Deborah si raddrizzò, si rimise in corsia e li seguì.
Quella strada laterale era stretta, con una fila di case sulla destra, un’alta massicciata di cemento giallo sulla sinistra, sovrastata dal ponte della I-95. Guidammo per parecchi isolati, andando via via sempre più veloci.
Una coppia di vecchietti che si tenevano per mano si fermò sul marciapiede e guardò sfrecciare la nostra singolare processione. Era senz’altro frutto della mia immaginazione, ma al passaggio dei due veicoli mi sembrò di vederli svolazzare in aria.
Ci avvicinammo un po’ di più al furgone che fece lo stesso col 4Runner. Tuttavia Oscar correva sempre di più; ignorò uno stop costringendoci a sterzare per non finire addosso a un camion con rimorchio. Il veicolo girava su se stesso nel tentativo di evitare il 4Runner e il furgone; tentò una svolta sgraziata a forma di ciambella e si schiantò contro un idrante. Debs strinse i denti, aggirò il camion e oltrepassò l’incrocio, noncurante dei clacson e del getto d’acqua che schizzava fuori dall’idrante, finché non raggiunse i due veicoli.
Qualche isolato più avanti di Oscar, scorsi una strada principale e il semaforo rosso. Anche da lontano si vedeva il traffico riversarsi a ondate nell’incrocio. D’accordo, non siamo immortali ma, potendo scegliere, non era questo il modo in cui desideravo morire. All’improvviso guardare la tivù assieme a Rita non mi sembrò poi così male. Cercai un modo educato e allo stesso tempo efficace per convincere Debs a fermarsi un istante, ma proprio ora che ne avevo bisogno il mio mirabile cervello sembrava disconnesso. Prima che riuscissi a farlo funzionare, Oscar era già al semaforo.
Probabilmente l’uomo doveva essere andato in chiesa quella settimana, perché non appena sfrecciò attraverso l’incrocio, il semaforo diventò giallo. Il furgone bianco gli corse subito dietro, inchiodando per evitare un’utilitaria blu che tentava di passare dalla parte opposta; poi fu il nostro turno e venne il verde. Sbandammo dietro al furgone e per poco gli finimmo dentro. Ma, dopotutto, eravamo a Miami… infatti un camion di cemento passò col rosso dopo l’utilitaria blu, proprio davanti a noi. Deglutii a fatica mentre Deborah teneva schiacciato il pedale del freno e l’auto faceva un testacoda intorno al camion. Sbattemmo con violenza contro il marciapiede, le due ruote sinistre vi saltarono sopra prima di rimbalzare sulla strada.