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Un cinquantenne ben piantato con addosso soltanto un paio di mutande correva verso di noi in mezzo alla strada. La pancia gli toccava la cintura e ballonzolava su e giù: ovviamente non era molto abituato a fare jogging e faticava a correre e insieme agitare la mano gridando: «Ehi! Ehi! Ehi!» Aveva attraversato la sopraelevata della I-95 e quando ci raggiunse era trafelato e ansimava così forte da non riuscire a formulare un discorso coerente. Comunque una certa idea su ciò che avrebbe detto l’avevo.

«El fugone», rantolò. Gli mancava il fiato e per di più aveva l’accento cubano ma stava cercando di dire: «Il furgone».

«Un furgone bianco? Con una ruota sgonfia? E la tua macchina è scomparsa», lo anticipai, mentre Doakes mi guardava.

L’individuo ansimante scuoteva la testa. «Un furgone bianco, sicuro. Mi è sembrato di sentire un cane lì dentro, credo ferito», spiegò e fece una pausa per prendere fiato e descrivere meglio la scena orribile a cui aveva assistito. «E poi…»

Ma aveva sprecato fiato inutilmente. Doakes e io ci eravamo già precipitati in strada nella direzione da cui era venuto.

21

Forse il sergente Doakes non si ricordava più che era lui a dovermi stare dietro, perché nella corsa al furgone mi distaccò di una ventina di metri. Naturalmente aveva il vantaggio per niente trascurabile di possedere entrambe le scarpe; comunque era stato bravo.

Il furgone era arenato su un marciapiede, davanti a una casa arancione pallido circondata da un muro di pietra color corallo. Il paraurti anteriore aveva sbattuto contro uno spigolo sgretolando il muro, mentre la parte posteriore era di sbieco in mezzo alla strada, il che ci permetteva di ammirare la targa giallo vivo con scritto SCEGLI LA VITA.

Quando lo raggiunsi, notai che la portiera sul retro era già aperta e udii il lamento proveniente dall’interno. Stavolta non sembrava un cane, o forse ero io che ci avevo fatto l’abitudine. Era più acuto e meno ripetitivo, più vicino a un gorgoglio stridulo piuttosto che a un urlo. Era comunque il verso inconfondibile di uno di quei morti viventi.

Era legato con delle cinghie a un sedile d’auto senza schienale che era stato messo di traverso, in modo da tenere tutta la lunghezza. In quelle cavità prive di palpebre, gli occhi si muovevano avanti e indietro e la bocca, senza labbra né denti, era congelata in una specie di O. La cosa si agitava come un bambino, ma non avendo braccia né gambe non riusciva a fare granché.

Doakes si era accovacciato al suo fianco e guardava ciò che restava della sua faccia con una commovente mancanza di espressione. «Frank», disse, e la cosa roteò gli occhi nella sua direzione. Per un attimo l’ululato si interruppe, poi riprese più acuto, impegnato in un diverso tipo di agonia, simile a una supplica.

«Lo hai riconosciuto?» domandai.

Doakes annuì. «È Frank Aubrey», rispose.

«Come fai a dirlo?» chiesi. Sul serio, credo che avrei avuto un’enorme difficoltà a riconoscere una persona in quelle condizioni. L’unico segno visibile erano le rughe sulla fronte.

Doakes continuava a fissarlo, quindi grugnì e indicò la zona laterale del collo. «Quel tatuaggio. È di Frank.» Grugnì un’altra volta, si piegò in avanti e diede un colpetto a un piccolo pezzo di carta attaccato alla panca. Mi avvicinai a vedere: con la stessa grafia filiforme della volta scorsa il dottor Danco aveva scritto:

ONORE

«Chiama i paramedici», ordinò Doakes.

Corsi verso l’ambulanza: gli infermieri stavano già chiudendo i portelli. «Ve ne sta ancora un altro?» chiesi. «Non occupa tanto spazio, però ha urgente bisogno di sedativi.»

«In che condizioni è?» mi domandò il giovanotto con i capelli sparati.

Dal punto di vista professionale la sua richiesta era davvero sensata, ma tutte le risposte che mi vennero in mente mi parvero frivole, così mi limitai a dire: «Credo che anche tu potresti averne bisogno, di quei sedativi».

I due mi guardarono come se li stessi prendendo in giro e non afferrarono la gravità della situazione. Poi si lanciarono un’occhiata e alzarono le spalle. «D’accordo, amico», borbottò il più vecchio. «Gli diremo di stringersi un po’.» Il ragazzo con i capelli sparati scosse il capo, ma tornò indietro, aprì il portello posteriore e fece uscire la barella.

Mentre i due la spingevano lungo l’isolato diretti al furgone di Danco, salii sul retro dell’ambulanza per vedere che cosa faceva Deborah. Aveva gli occhi chiusi ed era molto pallida, ma sembrava respirare debolmente. Aprì un occhio e mi guardò. «Siamo fermi», disse.

«Il dottor Danco ha fracassato il furgone.»

Lei si irrigidì e spalancò gli occhi. «L’avete preso?»

«No, Debs. Abbiamo solo il suo passeggero. Credo che lo stesse per consegnare, visto che è già pronto.»

Se prima pensavo che fosse pallida, ora divenne quasi evanescente. «Kyle», fece.

«No», le spiegai. «Doakes dice che è un tipo di nome Frank.»

«Siete sicuri?»

«Direi proprio di sì. Ha un tatuaggio sul collo. Non è Kyle, sorellina.»

Deborah chiuse gli occhi e si accasciò nella barella come un pallone sgonfio. «Grazie a Dio», mormorò.

«Spero che tu non abbia nulla in contrario a condividere la vettura con Frank», aggiunsi.

Lei scosse il capo. «Niente in contrario», rispose e riaprì gli occhi. «Dexter, niente stronzate con Doakes. Aiutalo a trovare Kyle. D’accordo?»

Doveva essere l’effetto delle droghe, perché non l’avevo mai sentita fare una richiesta in modo così supplichevole. «Va bene, Debs. Farò del mio meglio», promisi e i suoi occhi si richiusero.

«Grazie», disse.

Tornai al furgone di Danco appena in tempo per vedere l’infermiere più vecchio tirarsi su, di sicuro perché aveva appena vomitato. Poi si rivolse al suo collega. Questi era seduto sul marciapiede con la testa fra le mani, mentre Frank dall’interno continuava a ululare. «Avanti, Michael», gli disse il tipo più anziano. «Forza, amico.»

Michael non sembrava molto propenso a muoversi, se non per dondolarsi avanti e indietro e ripetere: «Oddio. Cristo. Oddio». Decisi che forse non aveva bisogno di un incoraggiamento e mi diressi verso la portiera anteriore del furgone. Si era aperta di scatto e sbirciai all’interno.

Il dottor Danco doveva andare di fretta, perché aveva dimenticato un costosissimo scanner, di quelli che usano curiosi e cronisti per monitorare il traffico radio della polizia. Fu davvero rassicurante scoprire che Danco era riuscito a seguirci grazie a questo e non a chissà quali superpoteri.

A parte quello, il furgone era pulito. Non c’erano taccuini, né foglietti con sopra indirizzi o frasi in latino scarabocchiate dietro. Niente che ci potesse fornire qualche indizio. Avremmo potuto trovare delle impronte, ma dal momento che sapevamo già chi c’era al volante non ci sarebbero state di grande aiuto. Presi lo scanner e mi diressi verso il retro del furgone. L’infermiere più vecchio era finalmente riuscito a far alzare il collega, mentre Doakes era in piedi davanti al portello. Gli porsi lo scanner. «Era sul sedile davanti», dissi. «Ci stava ascoltando.»

Doakes gli diede appena un’occhiata e lo posò nel furgone. Dato che non mi sembrava così loquace, gli domandai: «Hai idea su cosa fare adesso?»

Mi fissò senza parlare e io ricambiai lo sguardo, in attesa; non fosse stato per gli infermieri credo che avremmo potuto continuare per ore, finché i piccioni non ci avessero fatto il nido sulla testa.

«Okay, gente», fece il più vecchio e noi ci spostammo perché i due potessero prendere Frank. L’infermiere tarchiato sembrava essere del tutto a suo agio ora, come se dovesse steccare un ragazzino con una distorsione alla caviglia. Il suo collega, invece, non era così contento: lo sentivo sospirare a metri di distanza.