Una volta abbandonato a me stesso, riflettei sui sorprendenti avvenimenti delle ultime ore: Deborah all’ospedale, io alleato con Doakes… e l’intuizione che avevo avuto su Cody mentre guardavo in faccia la morte. Naturalmente, potevo essermi del tutto sbagliato sul ragazzo. La sua reazione quando la vicina aveva nominato il cane scomparso poteva aver avuto altre cause; anche quel modo violento di affondare il coltello nel pesce poteva spiegarsi come una normale espressione di crudeltà infantile. Ma, stranamente, mi accorsi che volevo che fosse vero. Volevo che Cody crescesse e diventasse come me… Soprattutto, compresi che volevo plasmarlo e instradarlo a seguire il Cammino di Harry.
Ecco che cos’era l’impulso umano a riprodursi: un’inutile e potente brama a replicare l’insostituibile e splendido me stesso, anche se l’essere in questione era un mostro che non meritava di vivere tra gli umani. Questo spiegava sicuramente l’origine degli individui imbecilli e sgradevoli che incontravo ogni giorno. A parte loro, comunque, ero perfettamente consapevole che senza di me il mondo sarebbe stato un posto migliore… Soltanto, mi sono sempre preoccupato più di me che di quello che poteva pensare il mondo. Adesso però non vedevo l’ora di generare qualcosa di simile a me, come Dracula che crea un nuovo vampiro perché stia al suo fianco nelle tenebre. Sapevo che era sbagliato… ma come mi sarei divertito!
Stavo diventando un vero idiota. Che la mia parentesi sul divano di Rita avesse trasformato le mie strabilianti facoltà cognitive in un ammasso di stucchevole sentimentalismo? Come potevo concepire simili assurdità? Perché piuttosto non escogitavo un modo per evitare il matrimonio? Non c’era da stupirsi che non riuscissi a liberarmi della nauseante sorveglianza di Doakes: avevo ormai utilizzato tutte le mie cellule grigie, che ora si erano esaurite.
Guardai l’orologio. Quindici minuti persi in chiacchiere assurde. Era passato abbastanza tempo: presi la radio e chiamai Doakes.
«Sergente Doakes, mi dia la sua posizione.»
Ci fu una pausa, poi un crepitio. «Uh, per il momento è meglio di no.»
«Può ripetere, sergente?»
«Ero sulle tracce di un sospetto, ma temo che mi abbia visto.»
«In che senso ’sospetto’?»
Lui fece una pausa, come se si aspettasse che parlassi io perché non sapeva che cosa dire. «Lo conosco dai tempi dell’esercito. L’hanno catturato in Salvador e può aver pensato che sia stata colpa mia.» Un’altra pausa. «Quel tipo è pericoloso», aggiunse.
«Le servono rinforzi?»
«Non ancora. Per ora sto cercando di evitare lo scontro.»
«Dieci-quattro», feci, un po’ eccitato all’idea che stavolta lo potevo dire anch’io.
Ripetemmo il messaggio base ancora un po’ di volte, per assicurarci che Danco sentisse, e in tutte ci infilai «dieciquattro». Quando all’una di notte decidemmo che era ora di smettere, mi sentivo esaltato e soddisfatto. Magari l’indomani avrei potuto esercitarmi su «Passo e chiudo» e persino su «Roger». Finalmente qualcosa di nuovo da fare.
Vidi un’auto di pattuglia diretta a sud e convinsi il poliziotto a portarmi da Rita. Mi avvicinai zitto zitto alla mia macchina, ci saltai sopra e tornai a casa.
Quando arrivai al mio rifugio, lo trovai in uno stato di terribile disordine. Mi ricordai che Debs sarebbe dovuta essere qui e invece era in ospedale. L’indomani sarei andato a trovarla. Quella era stata una giornata memorabile anche se devastante: ero stato inseguito in uno stagno da un mutilatore seriale, ero sopravvissuto a un incidente d’auto per poi rischiare di annegare, avevo perso una scarpa praticamente nuova e, come se non bastasse, ero stato costretto a fare l’amicone con il sergente Doakes. Povero Disintegrato Dexter. Non c’era da stupirsi se mi sentivo così stanco. Andai a letto e mi addormentai all’istante.
Il giorno dopo, sul presto, Doakes arrivò al parcheggio della centrale e lasciò la macchina accanto alla mia. Ne uscì con in mano un borsone da ginnastica di plastica, che posò sul cofano della mia auto.
«Mi hai portato la tua biancheria da lavare?» chiesi educatamente.
Ancora una volta il sergente ignorò il mio spensierato senso dell’umorismo. «Se funziona, o lui prende me o io prendo lui», brontolò. Aprì la cerniera del borsone. «Se io prendo lui, è fatta. Se lui prende me…» Estrasse un GPS e lo piazzò sul cofano. «Se lui prende me, sarai tu a farmi da rinforzo.» Abbozzò un fugace sorriso. «Immaginati che gioia.» Tirò fuori un cellulare e lo mise accanto al GPS. «Questa è la mia assicurazione.»
Guardai i due oggetti sul cofano della mia macchina. Non mi sembrarono particolarmente minacciosi, ma forse avrei potuto lanciarne uno e usare l’altro come corpo contundente. «Niente bazooka?» chiesi.
«Non ne ho bisogno. Bastano questi», rispose. Mise di nuovo la mano nel borsone. «E questo», aggiunse, tirando fuori un piccolo taccuino, aperto alla prima pagina. Sopra sembrava che ci fosse una serie di numeri e di lettere; dentro la spirale era infilata una biro scadente.
«Ne uccide più la penna della spada», commentai.
«Questa sì», fece. «La riga sopra è un numero di telefono. Quella sotto un codice di accesso.»
«A che cosa devo accedere?»
«Non ti interessa», sibilò. «Basta che chiami, introduca il codice e dica il mio numero di cellulare. Loro ti danno la mia posizione GPS e tu mi vieni a prendere.»
«Sembra facile», risposi, domandandomi se lo fosse veramente.
«Persino per uno come te.»
«Con chi parlerò?» chiesi.
Doakes si limitò a scuotere la testa. «Con una persona che mi deve un favore», disse e tirò fuori dalla borsa una radiolina portatile della polizia. «E ora la parte più facile», dichiarò. Mi porse la radio e rientrò in macchina.
Ora che avevamo chiaramente gettato l’esca per il dottor Danco, il passo successivo era riuscire a intercettarlo in un dato posto al momento giusto. La felice coincidenza della festa da Vince Masuoka era troppo perfetta per essere ignorata. Nelle ore successive girammo per la città in macchine separate, ripetendo versioni simili dello stesso messaggio, per essere più sicuri. Avevamo anche arruolato un paio di pattuglie che, a detta di Doakes, forse sarebbero riuscite a non fare cazzate. Attribuii il commento alla sua fine ironia, che i poliziotti in questione non parvero cogliere: anche se non si misero a tremare, furono un po’ troppo solerti nell’assicurare al sergente Doakes che effettivamente non avrebbero fatto cazzate. Era meraviglioso lavorare con un uomo che sapeva ispirare una simile lealtà.
La nostra minisquadra passò il resto della giornata a infestare l’etere di chiacchiere sulla mia festa di fidanzamento, unite a indicazioni sulla strada da fare per raggiungere la casa di Vince e sull’ora della festa. E, proprio dopo pranzo, il colpo di grazia: seduto in macchina davanti a un fast food, chiamai per l’ultima volta il sergente Doakes con la radio tascabile per esibirmi in una conversazione accuratamente studiata.
«Sergente Doakes, qui Dexter, mi riceve?»
«Qui Doakes», rispose, dopo una breve pausa.
«Ci terrei molto se stasera lei partecipasse alla mia festa di fidanzamento.»
«Non posso andare da nessuna parte», dichiarò lui. «Quel tipo è troppo pericoloso.»
«Venga anche solo per un drink. Entra ed esce», lo tentai.
«Hai visto come ha conciato Manny, e Manny era un soldato semplice. Io sono quello che l’ha consegnato ai cattivi. Se mi cattura, che ne sarà di me?»
«Mi sto per sposare, Sarge», replicai. Mi piaceva chiamarlo Sarge, faceva molto fumetti Marvel. «Non capita tutti i giorni. E poi con tutti questi poliziotti in giro, non avrà il coraggio di muovere un dito.»