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«Ave, miei giovani concittadini», li salutai. «Avete indossato le toghe adatte all’occasione? Cesare ci chiama in Senato.»

Astor piegò il capo e mi guardò come se avessi appena ingoiato un gatto randagio. Cody disse soltanto un «Cosa?» molto lentamente.

«Dexter», chiese Astor, «perché non possiamo venire alla festa con te?»

«Primo», le risposi, «domani andate a scuola. Secondo, sono davvero spiacente, ma si tratta di una festa per persone grandi.»

«Vuol dire che ci saranno ragazze nude?» chiese la bambina.

«Per chi mi hai preso?» replicai, lanciandole un’occhiata severa. «Pensi che andrei mai a una festa senza ragazze nude?»

«Yuuuuuuu», esclamò lei e Cody sussurrò: «Ah».

«Ma soprattutto ci saranno balli idioti e camicie orribili… meglio che non le vediate. Perdereste tutto il rispetto che avete verso gli adulti.»

«Che rispetto?» chiese Cody e gli strinsi la mano.

«Ben detto», risposi. «Adesso filate in camera vostra.»

Astor fece una risatina. «Noi vogliamo venire alla festa», insisté.

«No, mi dispiace», ripetei. «Ma ho qui un tesoro che non vi farà scappare via.» Le porsi una confezione di wafer Necco, la nostra moneta segreta. L’avrebbe divisa in parti uguali con Cody, lontano da occhi indiscreti. «E adesso, giovanotti…» esordii. Mi guardarono in attesa. Mi bloccai, ansioso di avere una risposta ma indeciso su come cominciare. Di certo non potevo dire: A proposito, Cody, mi chiedevo se è vero che ti piace uccidere. Naturalmente era proprio quello che volevo sapere, però non mi sembrava una domanda da fare a un ragazzino… a maggior ragione a Cody, che di solito era loquace come una noce di cocco.

Comunque, spesso sua sorella Astor sembrava rispondere al suo posto. L’essere cresciuti insieme con un orco violento come padre aveva sviluppato tra i due un legame simbiotico così forte che quando uno beveva una bibita l’altro ruttava. Tutto quello che si agitava dentro Cody, Astor sarebbe stata in grado di esprimerlo.

«Posso farvi una domanda molto seria?» chiesi. I due si scambiarono uno sguardo che sottendeva un’intera conversazione, ma non si parlarono. Poi si voltarono a guardarmi, come le teste dei giocatori montate sul calcetto.

«Il cane dei vicini», dissi.

«Diglielo tu», fece Cody.

«Rovesciava sempre fuori la pattumiera», spiegò Astor. «E faceva la cacca nel nostro cortile. E Nicky cercava sempre di farci mordere.»

«E quindi se ne è occupato Cody?» indagai.

«Proprio lui», ribatté Astor. «Gli piace fare quelle cose. Io ho solo guardato. Lo dirai alla mamma?»

Dunque era andata così. Gli piace fare quelle cose. Li fissai entrambi: mi scrutavano tranquilli, neanche mi avessero appena detto che preferivano il gelato alla vaniglia anziché quello alla fragola. «Non lo dirò a vostra madre», promisi. «Però voi non dovete dirlo a nessun altro al mondo, a nessun costo. Solo noi tre e nessun altro, capito?»

«Okay», rispose Astor, lanciando un’occhiata a suo fratello. «Ma perché, Dexter?»

«Gli altri non possono capire», spiegai. «Neanche la mamma.»

«Tu lo capisci», fece Cody col suo sussurro rauco.

«Sì», ammisi. «E posso aiutarti.» Feci un profondo respiro e sentii un’eco attraversarmi le ossa, un’eco dei tempi di Harry che giungeva finora… Intorno a noi c’era lo stesso paesaggio della Florida quando il mio padre adottivo pronunciò le stesse parole. «Bisogna fare un po’ d’ordine», dichiarai. Cody mi guardò con i suoi occhioni immobili e annuì.

«Va bene», acconsentì.

23

Vince Masuoka aveva una casetta in North Miami, al fondo di una strada chiusa sulla North East 125th Street. Era dipinta di giallo pallido con i bordi rosso pastello, il che mi diede da riflettere sul mio gusto nelle amicizie. Nel cortile anteriore c’erano alcuni cespugli ben potati e una composizione di cactus accanto alla porta. Una fila di lampade a energia solare illuminava il vialetto acciottolato d’ingresso.

C’ero già venuto una volta, poco più di un anno prima, quando Vince aveva deciso, non so perché, di dare una festa in costume. Ci avevo portato Rita, visto che l’unico motivo per cui ci si mette un travestimento è essere visti quando lo si indossa. Lei si era vestita da Peter Pan e io, naturalmente, da Zorro: il Vendicatore Oscuro dalla spada sempre pronta. Vince ci aveva aperto con indosso un’attillata tunica di raso e un cesto di frutta sulla testa.

«J. Edgar Hoover?» gli avevo chiesto.

«Fuocherello. Carmen Miranda», aveva detto, prima di condurci a una fontana da cui sgorgava un letale punch alla frutta. Dopo averne bevuto un sorso, avevo deciso di restare fedele alle bibite gassate, ovviamente il tutto prima della mia conversione a essere umano e sbevazzone. Colonna sonora della serata: una ripetitiva musica techno-pop a un volume da autolobotomia cerebrale, che aveva reso la festa estremamente rumorosa ed esilarante.

Per quanto ne sapevo, da allora Vince non aveva più dato altre feste, o almeno non così in grande. Tuttavia il ricordo non si era spento e Vince non aveva avuto difficoltà a radunare, con solo ventiquattr’ore di preavviso, una folla entusiasta che si unisse alla mia umiliazione. Fedele alla promessa, aveva allestito numerosi schermi che proiettavano film porno tanto in casa quanto sulla terrazza. E, naturalmente, era ricomparsa la fontana da cui zampillava punch alla frutta.

Dato che la festa precedente era ancora sulla bocca di tutti, erano arrivati i peggiori casinisti, in maggior parte maschi, che si erano attaccati al punch neanche ci fosse stato in palio un premio per il primo che conseguiva un danno cerebrale permanente. Non conoscevo molti degli invitati. Dell’ufficio c’era Angel Batista Nessuna Parentela, assieme a Camilla Figg. Poi un gruppetto di colleghi secchioni del laboratorio analisi e alcuni poliziotti, fra i quali quelli che a detta del sergente Doakes «non facevano cazzate». Il resto della gente sembrava presa a casaccio da South Beach, scelta per l’abilità di emettere grida esagerate quando la musica cambiava o i video mostravano scene particolarmente indecenti.

Non ci volle molto perché la festa si trasformasse in qualcosa che avremmo rimpianto per molto tempo. Alle nove e un quarto ero l’unico in grado di rimanere in piedi senza aiuto. Molti poliziotti si erano accampati intorno alla fontana come un’orribile massa di ubriaconi. Angel Nessuna Parentela dormiva sotto il tavolo, sorridente. Non aveva più i pantaloni e qualcuno gli aveva rasato una striscia di capelli in mezzo alla testa.

Visto come andavano le cose, pensai che potesse essere il momento giusto per uscire di nascosto a vedere se il sergente Doakes era già arrivato. Si rivelò invece una pessima idea. Mi ero appena avviato verso la porta quando sentii piombarmi alle spalle qualcosa di molto pesante. Mi voltai rapido per scoprire che Camilla Figg stava tentando di appendersi alla mia schiena. «Ciao», disse con un sorriso luminoso e un po’ confuso.

«Ciao», risposi allegramente. «Posso offrirti da bere?»

Lei aggrottò le sopracciglia. «Non voglio bere. Volevo solo salutarti.» Aggrottò ulteriormente le sopracciglia. «Diiio, quanto sei carino», miagolò. «Non sai da quanto te lo voglio dire.»

Be’, la poverina era chiaramente ubriaca, comunque… Carino? Io? Immagino che tutto quell’alcool le avesse appannato la vista. Suvvia… come fa a essere carino uno che le persone preferisce farle a pezzi piuttosto che stringere loro la mano? E in ogni caso, con Rita ero già andato oltre il mio limite massimo di donne consentito. A quanto ricordavo, io e Camilla non ci eravamo detti più di tre parole in tutto. Mai prima d’ora aveva fatto cenno alla mia presunta bellezza. Di solito sembrava evitarmi e preferiva arrossire e guardare da un’altra parte piuttosto che dirmi un semplice buon giorno. Ora invece stava praticamente tentando di violentarmi. Aveva forse un senso?