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In ogni caso, non avevo tempo da perdere per decifrare il comportamento umano. «Grazie molte», dissi, cercando di staccarmela di dosso senza che nessuno dei due si facesse male. Mi aveva stretto le mani intorno al collo e io tentai di aprirle, lei però mi si attaccava come una cozza. «Penso che tu abbia bisogno di prendere un po’ d’aria, Camilla», suggerii, sperando che cogliesse il messaggio e si togliesse dai piedi. Invece mi strinse più forte e schiacciò la testa contro la mia, mentre tentavo disperatamente di fare marcia indietro.

«La prendo benissimo anche qui», replicò. Protese le labbra come se stesse per schioccare un bacio e mi spinse all’indietro, rischiando di farmi cadere su una sedia.

«Ah… ti vuoi sedere?» chiesi speranzoso.

«No», rispose spingendomi per terra con quella che sembrava il doppio della sua forza, «voglio scopare.»

«Ah, be’», balbettai, sopraffatto dalla sua totale e scioccante sfacciataggine e dall’assurdità del gesto… Forse le donne umane erano tutte pazze? Non che gli uomini fossero meglio. Sembrava che la coreografia della festa fosse stata curata da Hyeronimus Bosch, con Camilla decisa a trascinarmi dietro la fontana dove mi aspettava un gruppo di gente con il becco da uccello pronta a stuprarmi. Poi mi resi conto che avevo la scusa perfetta per non essere violentato. «Mi sto per sposare, lo sai.» Non riuscivo a farmene una ragione, ma una volta tanto mi venne utile.

«Bassstardo», sibilò Camilla. «Bello e bassstardo.» Si abbandonò di colpo e mi staccò le braccia dal collo. Riuscii a malapena ad afferrarla e impedirle di sbattere sul pavimento.

«Può darsi», feci. «Tuttavia penso che tu abbia bisogno di stare seduta per qualche minuto.» Tentai di distenderla delicatamente sulla sedia, ma era come far scivolare del miele sulla lama di un coltello. Ricadde sul pavimento.

«Bello e bassstardo», ripeté lei e chiuse gli occhi.

Fa sempre piacere scoprire di essere ben considerato dai propri colleghi, però la mia parentesi romantica mi era costata diversi minuti e avevo proprio urgenza di uscire a parlare con il sergente Doakes. Così lasciai Camilla che sonnecchiava, immersa nei suoi molli sogni d’amore, e ritentai di raggiungere la porta.

Venni di nuovo afferrato, stavolta per un braccio. A braccarmi era Vince in persona, che mi allontanò dall’uscita e mi fece ripiombare nel delirio. «Ehi… festeggiato!» esclamò. «Dove te ne vai?»

«Temo di aver dimenticato le chiavi in macchina», dissi, cercando di liberarmi da quella stretta mortale. Ma lui mi strattonò ancora più forte.

«No, no, no», ripeteva, spingendomi verso la fontana. «Questa è la tua festa, e tu non te ne andrai da nessuna parte.»

«È bellissima, Vince», provai a convincerlo. «Ma ho proprio bisogno di…»

«Bere!» esclamò lui. Riempì una tazza nella fontana e me la porse, schizzandomi tutta la camicia. «Ecco di che cosa hai bisogno. Banzai!» alzò in aria la sua tazza e la svuotò. Fortunatamente, data la situazione, gli venne un accesso di tosse e io riuscii ad allontanarmi mentre lui tentava di non soffocare.

Avevo appena imboccato il sentiero che Vince apparve sulla porta. «Ehi!» mi urlò. «Non puoi andartene adesso, arrivano le spogliarelliste!»

«Vengo subito!» esclamai. «Tienimi da parte un altro drink!»

«Okay!» rispose, con il suo sorriso falso. «Ah! Banzai!» E tornò alla festa facendomi un allegro cenno di saluto.

Mi rimisi a cercare Doakes.

Ormai ero così abituato, ovunque fossi, a vederlo parcheggiare dall’altra parte della strada, che mi aspettavo di individuarlo all’istante. Invece non fu così. Quando alla fine notai la famosa Taurus marrone, compresi l’intelligenza della sua mossa. Doakes aveva parcheggiato in strada sotto un grande albero, che non faceva passare la luce dei lampioni. Era il tipico atteggiamento di qualcuno che cerca di nascondersi, ma nello stesso tempo avrebbe permesso al dottor Danco di avvicinarsi tranquillamente, sicuro di non essere visto.

Mi accostai all’auto. Non appena la raggiunsi si abbassò il finestrino. «Non c’è ancora», fece Doakes.

«Dovresti entrare a bere qualcosa», dissi.

«Io non bevo.»

«E non vai nemmeno alle feste, altrimenti avresti dovuto sapere che aspettare fuori in macchina non è il modo migliore per parteciparvi.»

Il sergente Doakes non rispose, ma tirò su il finestrino, aprì la portiera e scese. «Se arriva adesso, che cosa farai?» mi chiese.

«Conto sul mio fascino per salvarmi la pelle», dichiarai. «Entra ora, finché puoi ancora trovare qualcuno sobrio.»

Attraversammo insieme la strada. Di fatto non ci tenevamo per mano, ma la circostanza era così strana che non mi sarei sorpreso se fosse successo. Mentre eravamo in mezzo, una macchina svoltò l’angolo e ci venne incontro. Avrei voluto scappare e tuffarmi in una fila di oleandri, ma fui molto fiero del mio aplomb perché mi limitai a osservare l’auto in avvicinamento. Si muoveva lenta e quando ci raggiunse, io e il sergente Doakes eravamo proprio al centro della strada.

Lui si voltò a guardare il veicolo; anch’io. Cinque facce giovani e ingrugnite ricambiarono l’occhiata. Uno di loro si girò a dire qualcosa agli altri, e tutti risero. La macchina passò.

«Meglio entrare», dissi. «Sembra pericoloso.»

Doakes non rispose. Guardò l’auto fare inversione in fondo alla via e poi proseguì il suo cammino diretto a casa di Vince. Gli andai dietro e lo raggiunsi in tempo per aprirgli la porta.

Ero stato fuori soltanto qualche minuto, ma il conteggio delle vittime era cresciuto clamorosamente. Due dei poliziotti intorno alla fontana erano stesi sul pavimento e uno dei profughi di South Beach era stato gettato in un recipiente della Tupperware che prima conteneva gelatina alla frutta. La musica pompava più del solito e sentii Vince gridare dalla cucina «Banzai!» seguito da un coro di voci scalcinate.

«Abbandonate ogni speranza», brontolò il sergente Doakes e aggiunse qualcosa del tipo «Depravati figli di puttana». Scosse la testa ed entrò.

Il sergente non prese niente da bere né si unì alle danze. Scovò un angolo della stanza privo di corpi esanimi e si piazzò lì, simile a una versione trash del Bieco Mietitore a un party studentesco. Mi chiesi se dovessi aiutarlo a entrare nello spirito della serata. Magari potevo mandargli Camilla a sedurlo.

Guardai il buon sergente nel suo angolino e mi diedi un’occhiata intorno, chiedendomi a che cosa stesse pensando. Era una splendida metafora: Doakes che se ne stava zitto e solo in un angolo mentre intorno a lui tutti si scatenavano e si divertivano. Se avessi potuto provare emozioni, forse avrei avuto un rigurgito di simpatia nei suoi confronti. Sembrava completamente distaccato, non reagì neppure quando due del gruppo di South Beach gli passarono davanti nude. Fissò il monitor più vicino, che trasmetteva alcune scene, originali e sconcertanti, che coinvolgevano animali. Doakes le guardò senza interesse o emozioni di sorta; poi il suo sguardo corse ai poliziotti riversi sul pavimento, ad Angel sotto al tavolo, a Vince che usciva dalla cucina ballando in una specie di trenino. Poi mi fissò con la stessa faccia senza espressione. Attraversò la stanza e mi si parò davanti.

«Quanto tempo dobbiamo ancora rimanere?» chiese.

Gli rivolsi il mio sorriso migliore. «È un po’ troppo, vero? Tutta questa gioia e quest’allegria… ti devono far saltare i nervi.»

«Mi fanno venir voglia di lavarmi le mani», disse. «Ti aspetto fuori.»

«Ti sembra una buona idea?» domandai.

Indicò con la testa il trenino con Vince davanti, piegato in due dalle risate. «E quello cosa ti sembra?» fece. Naturalmente aveva ragione, anche se in termini di dolore puro e angoscia mortale il balletto del trenino non poteva certo competere col dottor Danco. Tuttavia, immagino che si debba anche tener conto della dignità umana, se davvero ne esiste una. A prima vista, guardando in quella stanza, sembrava che il mondo ne fosse privo.