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Restò a lungo a fissare il suo riflesso, poi si lasciò cadere come se le ossa non lo reggessero più. «Gesù», mormorò e riprese a piangere. «Oh, Gesù.»

«Avanti», lo sollecitai. «Muoviamoci.»

Chutsky alzò le spalle e scosse la testa. «Non potevo neanche muovermi, dovevo solo stare qui e sentire che cosa faceva a Frank. Sembrava così contento… ’Indovina… Non lo sai? Va bene allora, un braccio.’ Poi il rumore della sega e…»

«Chutsky», lo interruppi.

«E quando mi coricò qui sopra e disse ’Sette’ e poi ’Indovina’. E dopo…»

Certo, è sempre interessante ascoltare le tecniche altrui, ma sembrava che Chutsky stesse perdendo il controllo che gli era rimasto. Non potevo permettere che si asciugasse un’altra volta il naso sulla mia camicia. Allora mi avvicinai e lo presi per il braccio buono. «Chutsky. Avanti. Usciamo di qui», intimai.

Lui mi guardò come se non sapesse dove si trovava, gli occhi spalancati; si girò un’altra volta verso lo specchio. «Oh, Gesù», ripeté. Poi emise un respiro profondo e incerto e si alzò come se stesse rispondendo a un immaginario squillo di tromba. «Non mi lamento», dichiarò. «Sono vivo.»

«Infatti. E se ce ne andiamo può darsi che lo rimarremo entrambi.»

«Giusto», mormorò. Allontanò con forza la faccia dallo specchio e mi mise il braccio buono sulla spalla. «Andiamocene.»

Naturalmente Chutsky non aveva una grossa esperienza nel camminare su una gamba sola, ma sbuffò e zoppicò, appoggiandosi con forza a me a ogni gradino. Anche se gli mancava qualche pezzo, era ancora un uomo robusto e per me fu davvero dura. Poco prima del ponte si fermò un istante e indicò oltre la rete. «È lì che ha buttato la mia gamba», disse, «agli alligatori. Si è assicurato che stessi guardando. L’ha sollevata in aria perché la potessi vedere, quindi l’ha lanciata e l’acqua si è riempita di bolle come se…»

Percepii una crescente nota isterica nella sua voce, ma se ne accorse anche lui e si zittì. Inspirò, tremando, poi con voce ruvida dichiarò: «D’accordo. Andiamocene di qui».

Tornammo al cancello senza altre digressioni nel viale dei ricordi e, mentre lo aprivo, Chutsky si appoggiò a un palo. Poi lo aiutai a salire davanti, saltai al volante e accesi il motore. Mentre accendevo i fari, Chutsky si accasciò sul sedile e chiuse gli occhi. «Grazie, amico», sussurrò. «Ti sono grato. Grazie.»

«Prego», risposi. Feci manovra e infilai di nuovo Alligator Alley. Credevo che Chutsky si fosse addormentato, ma a metà strada cominciò a parlare.

«Sono contento che tua sorella non sia qui a vedermi in questo stato», disse. «È che… Ascolta, devo davvero rimettermi a posto prima che…» Si interruppe bruscamente e per un po’ tacque. La macchina proseguì sobbalzando per la strada buia, con noi dentro, in silenzio. Il che non mi dispiacque affatto. Mi chiesi dove fosse Doakes e che cosa stesse facendo. O, forse, che cosa gli stessero facendo. A tal proposito, mi domandai dove fosse Reiker e quando avrei potuto portarlo da un’altra parte. In un posto tranquillo, dove avrei potuto meditare e lavorare in pace. Chissà a quanto lo affittavano l’Allevamento di Alligatori Blalock.

«Un’idea potrebbe essere non darle ulteriori preoccupazioni», riattaccò Chutsky all’improvviso e mi ci volle un attimo per capire che stava parlando di Deborah. «Lei non vorrà più stare con me ora che sono ridotto così e io non ho bisogno della pietà di nessuno.»

«Tranquillo», replicai. «Deborah è totalmente priva di pietà.»

«Le dirai che sto bene e che sono tornato a Washington», continuò. «È meglio così.»

«Forse sarà meglio per te», obiettai. «Ma io sarò morto.»

«Tu non capisci…»

«No, sei tu a non capire. Deborah mi ha detto di venirti a riprendere. È stata lei a decidere e io non posso disobbedirle. È molto violenta.»

Chutsky tacque per un po’. Lo sentii singhiozzare. «Non so se me la sento», mormorò.

«Posso riportarti all’allevamento di alligatori», dichiarai allegramente.

Lui non aggiunse altro; io arrivai al fondo di Alligator Alley, svoltai nella strada principale e guidai verso le calde luci aranciate di Miami che brillavano all’orizzonte.

26

Viaggiammo in silenzio finché non raggiungemmo i primi segni di civiltà, un’area di sviluppo urbano con una fila di centri commerciali sulla destra, a pochi chilometri dal casello. Poi Chutsky si tirò su e guardò le luci e i palazzi. «Mi serve un telefono», disse.

«Puoi usare il mio, se paghi la chiamata», risposi.

«Mi serve un fisso», fece. «Un telefono pubblico.»

«Non sei proprio al passo con i tempi», gli feci presente. «Al giorno d’oggi sono un po’ difficili da trovare. Nessuno li usa più.»

«Usciamo qui», replicò lui. Anche se questo mi allontanava dalla mia meritata notte di riposo, imboccai la rampa. Dopo nemmeno due chilometri trovammo un minimarket che aveva ancora un telefono pubblico appeso alla parete d’ingresso. Aiutai Chutsky a saltellargli incontro; lui si appoggiò alla cabina e alzò il ricevitore. Mi guardò e mi ordinò: «Aspetta laggiù», il che mi sembrò un po’ autoritario detto da uno che non era neppure in grado di camminare senza assistenza. Comunque tornai alla macchina e mi sedetti sul cofano mentre Chutsky chiacchierava.

Una vecchia Buick parcheggiò sbuffando accanto a me. Scese un gruppo di uomini bassi, malvestiti e di carnagione scura che si diressero al negozio. Videro Chutsky in piedi su una gamba sola e con la testa rasata, ma furono così educati da non commentare. La porta sbatté alle loro spalle e mi sentii addosso il peso della giornata; ero stanco, avevo il torcicollo, non avevo ammazzato nessuno. Ero molto nervoso, volevo andare a casa a dormire.

Mi chiesi dove il dottor Danco avesse portato Doakes. Non mi importava granché, era solo oziosa curiosità. Ma ripensandoci, se davvero l’aveva portato chissà dove e presto avrebbe cominciato a lasciargli addosso segni permanenti, questa era una delle più belle notizie che avevo avuto ultimamente. Una vampata mi percorse da parte a parte. Ero libero. Doakes era scomparso. Stava abbandonando la mia vita, un pezzo alla volta, affrancandomi dall’involontaria schiavitù del divano di Rita. Sarei tornato a vivere.

«Ehi, amico», gridò Chutsky. Agitò il moncherino. Io mi alzai e lo raggiunsi. «Tutto a posto», fece. «Andiamo.»

«Okay, dove?»

Lui guardò in lontananza e notai come irrigidiva i muscoli della mascella. Le luci del parcheggio gli illuminavano la tuta e gli luccicavano sulla testa. È sorprendente come cambia una faccia se radi le sopracciglia. Assume un che di mostruoso, quasi come il trucco in un B-movie di fantascienza. Anche se Chutsky doveva essere stato un tipo duro e risoluto, mentre fissava l’orizzonte e stringeva la mascella sembrava in attesa di un raccapricciante comando dello Spietato Ming. Mi disse soltanto: «Riportami all’albergo, amico. Devo lavorare».

«Che ne pensi di un ospedale?» proposi. Nessuno si aspettava che intagliasse un bastone da un ramo d’albero e seguisse la pista zoppicando. Lui però fece segno di no.

«Sto bene», disse. «Andrà tutto bene.»

Guardai volutamente i due pezzi di garza bianca che aveva al posto del braccio e della gamba e sollevai un sopracciglio. Dopotutto, le ferite erano ancora fresche, tanto da richiedere un bendaggio, e Chutsky avrebbe dovuto sentirsi piuttosto debole.

Abbassò lo sguardo sui suoi moncherini; barcollò lievemente e per un attimo sembrò più basso. «Andrà tutto bene», ripeté raddrizzandosi un pochino. «Muoviamoci.»