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Dopo dieci minuti che sfogliavo foto e negativi, le immagini più compromettenti che trovai erano qualche dozzina di ritratti di neonati nudi sdraiati su un tappeto di pelliccia di volpe bianca. Anche chi ritiene Pat Robertson troppo liberale le avrebbe definite «carine». A quanto sembrava, non c’erano scomparti segreti nel mobiletto e nessun altro posto intuitivo in cui nascondere le foto.

Non avevo molto tempo; se Reiker era soltanto uscito a comprare il latte sotto casa, era fatta. Poteva tornare in qualunque momento e decidere di rovistare nel suo materiale per osservare teneramente i deliziosi piccoli folletti che aveva immortalato su pellicola. Mi spostai nella zona computer.

Accanto al monitor c’era un alto porta CD; passai in rassegna una alla volta le custodie. Dopo un gruppo di driver per installare programmi e altri dischi con su scritto a mano GREENFIELD o LOPEZ, lo trovai.

Era una specie di portagioielli rosa acceso. Davanti, a lettere chiare, c’era scritto NAMBLA 9/04.

NAMBLA poteva anche essere un nome spagnolo poco comune. Ma stava anche per North American Man/Boy Love Association, un simpatico quanto vago gruppo di supporto per aiutare i pedofili a mantenere una positiva immagine di loro stessi, sostenendo che ciò che fanno è perfettamente naturale. Be’, certo che lo è… come il cannibalismo e lo stupro, davvero. Non si dovrebbe.

Presi il CD, spensi la luce e scivolai nella notte.

Quando tornai al mio appartamento, ci misi pochi minuti a scoprire che il disco era un supporto in vendita, forse da portare a una specie di raduno della NAMBLA e da offrire a una lista selezionata di orchi discriminati. Sopra, le foto erano organizzate in quelle che vengono dette «gallerie di schizzi», una serie di miniature simili a quelle che amavano sfogliare gli sporcaccioni nell’era vittoriana. Le foto erano scurite nei punti strategici in modo che si potessero immaginare i particolari anche senza vederli.

E… oh, sì: molti scatti erano versioni tagliate e modificate da mano esperta delle immagini che avevo visto sulla barca di MacGregor. Dunque anche se non avevo trovato gli stivali da cowboy, avevo materiale sufficiente per rispettare il Codice di Harry. Reiker era balzato in cima alla classifica.

Andai a letto sorridente e col cuore leggero, pensando allegramente a quello che io e lui avremmo potuto fare insieme l’indomani notte.

Il giorno dopo, sabato, mi svegliai sul tardi e uscii a fare jogging nel mio quartiere. Dopo una doccia e un’abbondante colazione, andai a comprare l’essenziale: un nuovo rotolo di nastro adesivo e un coltello da cucina con la lama sottile come un rasoio, giusto l’indispensabile. Poi, dato che il Passeggero Oscuro si stava agitando, mi fermai a una tavola calda per uno spuntino. Mangiai una bistecca da quasi mezzo chilo, ovviamente ben cotta, senza una goccia di sangue.

Poi passai di nuovo davanti alla casa di Reiker, per rivedere il posto alla luce del giorno. Il fotografo in persona stava tagliando l’erba. Rallentai e gettai uno sguardo casuale; ahimè, portava un paio di vecchie scarpe da ginnastica, niente stivali rossi. Era a torso nudo e, oltre a essere ossuto, sembrava pallido e flaccido. Tranquillo, presto ci avrei pensato io a ridargli un po’ di colore.

Fu una giornata molto soddisfacente e produttiva, quella del mio Giorno Prima. Me ne stavo seduto buono buono nel mio appartamento, tutto preso da virtuosi pensieri, quando squillò il telefono.

«Buona sera», dissi.

«Puoi venire qui?» fece Deborah. «Abbiamo del lavoro da finire.»

«Che lavoro?»

«Non fare il cretino», disse. «Vieni», e riattaccò. Non era soltanto irritante, di più. Primo, non mi risultava che ci fosse nessun lavoro da finire; secondo, non mi ritenevo un cretino — un mostro, questo sì, ma nell’insieme un mostro piuttosto piacevole e dotato di buone maniere. E oltre tutto, quel suo modo di riattaccare, che sottintendeva semplicemente che avrei tremato e obbedito. Che coraggio! Nessuno mi avrebbe fatto tremare, anche se era mia sorella ed era dotata di un pugno di ferro.

Comunque obbedii. Ci misi più del solito a raggiungere il Mutiny: era sabato pomeriggio e nel Grove le strade si riempivano di sfaccendati. Mi destreggiai lentamente nel traffico, col desiderio di schiacciare l’acceleratore a tavoletta e fare strage di quell’orda barbarica. Deborah mi aveva tolto il buonumore.

E quando bussai alla porta della suite, al Mutiny, non contribuì a migliorarlo: aprì con quella sua espressione da poliziotto-in-servizio-con-problemi, che la faceva somigliare a un odiosissimo pesce. «Entra», ordinò.

«Sì, padrona», dissi.

Chutsky era sul divano. Continuava a non assomigliare a un colono inglese (forse per colpa dell’assenza delle sopracciglia), ma complessivamente aveva l’aspetto di uno che aveva scelto di vivere. Sembrava che il programma di recupero di Deborah stesse funzionando. Alle sue spalle, appoggiata al muro, c’era una stampella e lui stava bevendo del caffè. Un vassoio di dolci era poggiato sul tavolino di fronte. «Ehi, amico», salutò agitando il moncherino. «Prendi una sedia.»

Presi una sedia in stile coloniale inglese e mi sedetti, dopo aver sgraffignato un paio di pasticcini. Chutsky mi guardò sul punto di obiettare, ma davvero, era proprio il minimo che potevano fare per me. Dopotutto, per salvarlo avevo affrontato alligatori affamati e l’agguato di un pavone, e ora ero lì a sacrificare il mio sabato per chissà quale ingrato lavoro. Mi meritavo un’intera torta.

«Okay», fece Chutsky. «Dobbiamo capire dove si nasconde Henker e dobbiamo farlo in fretta.»

«Chi?» chiesi. «Vuoi dire il dottor Danco?»

«Già, si chiama così. Henker», rispose lui. «Martin Henker.»

«E noi dobbiamo trovarlo?» domandai, con un orribile presentimento. Voglio dire, perché chiamare proprio me e dire noi?

Chutsky sbuffò leggermente, come risposta a quella che credeva una mia battuta. «Sì, esatto», disse. «Dove pensi che potrebbe essere, amico?»

«Per la verità, non ci penso proprio», replicai.

«Dexter», intervenne Deborah in tono di avvertimento.

Chutsky aggrottò le sopracciglia. Ne risultò una strana espressione, dato che non le aveva. «Che cosa vuoi dire?» chiese.

«Voglio dire… non vedo perché dovrebbe essere un mio problema. Non vedo perché io o comunque noi dobbiamo trovarlo. Lui ha avuto quello che voleva… perché non lasciare che finisca e se ne torni a casa?»

«Sta scherzando?» chiese Chutsky a Deborah, e se solo avesse avuto le sopracciglia, le avrebbe sollevate.

«Doakes non gli piace», spiegò Deborah.

«D’accordo, ma ascolta, Doakes è uno dei nostri», mi disse Chutsky.

«Non uno dei miei», replicai.

Chutsky scosse la testa. «Okay, questo è un problema tuo. In ogni caso dobbiamo trovare quell’uomo. È anche una questione politica e se non lo fermiamo è un casino.»

«Va bene», convenni. «Comunque non capisco perché debba essere un mio problema.» Mi parve una domanda molto sensata, anche se dalla sua reazione sembrava che volessi far esplodere una bomba in una scuola elementare.

«Gesù!» esclamò, e scosse la testa come per farsi beffe di me. «Sei proprio un bel tipo, amico.»

«Dexter», intervenne Deborah. «Guardaci.» Li guardai, Deb col suo gesso e Chutsky con la sua coppia di moncherini. A essere sinceri, non facevano molta paura. «Ci serve il tuo aiuto», disse.

«Debs, davvero…»

«Per favore, Dexter», implorò mia sorella, sapendo bene che quando me lo chiedeva così non riuscivo a dire di no.