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Man mano che mi avvicinavo alla villetta sentivo Quel Qualcosa che cresceva sempre più grande e forte dentro di me, mentre le vecchie dita gelide spingevano per farlo uscire. Ero di fuoco e di ghiaccio, la luna e la morte mi davano forza, e quanto più mi avvicinavo alla casa tanto più crescevano i bisbigli dentro di me, mentre dall’abitazione mi giungevano i suoni attutiti di una musica, forse un coro di ritmi e sassofoni di Tito Puente, e non occorreva che i crescenti sussurri mi dicessero che avevo ragione, che era proprio qui che il dottore aveva allestito la sua clinica.

Era qui, ed era al lavoro.

E adesso, che cosa potevo fare? Naturalmente la cosa più saggia sarebbe stata tornare alla macchina e aspettare la chiamata di Deborah… ma questa notte non c’era tempo per la saggezza, con la luna che sogghignava melodiosa così bassa nel cielo e il ghiaccio che mi gelava le vene e mi incitava a proseguire.

Dunque, non appena superata la tana del dottore, scivolai nell’oscurità della casa accanto e attraversai circospetto il cortile, finché non scorsi il retro dell’abitazione di Ingraham. Una forte luce proveniva dalla finestra posteriore e io mi avvicinai furtivamente, sempre di più, nascosto dall’ombra di un albero. Qualche altro passo felpato e sarei quasi riuscito a sbirciare dentro la finestra. Mi accostai ancora un po’, appena fuori dalla pozza di luce sul selciato.

In quella posizione potevo vedere all’interno, da un certo angolo fino al soffitto della stanza. Ecco lo specchio che Danco amava tanto usare che rifletteva metà del tavolo…

… e poco più di metà del sergente Doakes.

Era legato stretto, immobile, e la sua testa rasata di fresco era bloccata sul tavolo. Non riuscii a distinguere molti dettagli, ma a quanto sembrava le sue mani erano mozzate fino ai polsi. Le mani per prime? Davvero interessante: si trattava di un approccio completamente differente da quello usato con Chutsky. Come faceva Danco a stabilire cos’era meglio per ogni paziente?

Quell’uomo e la sua opera mi intrigavano sempre di più; c’era uno strano humour che animava la faccenda e, per quanto possa sembrare stupido, volevo conoscere un po’ meglio il suo modo di lavorare. Mi avvicinai ancora.

La musica si fermò e io con lei, poi quando il ritmo del mambo riprese, sentii una tosse metallica dietro di me e qualcosa che mi dava un colpetto sulla spalla, mi pungeva e pizzicava; mi voltai e vidi un ometto dai grandi occhiali che mi fissava. Stringeva una pistola che sembrava una di quelle che sparano proiettili di vernice; ebbi appena il tempo di indignarmi visto che era puntata contro di me, prima che qualcuno mi sfilasse le ossa dalle gambe. Poi scivolai nei prati psichedelici e lunari dove tutto è oscuro e immerso nei sogni.

29

Stavo allegramente dissezionando un tipo davvero cattivo che avevo legato stretto con il nastro adesivo e bloccato su un tavolo, ma non so come il coltello era di gomma e si limitava a ondeggiare da una parte all’altra. Allora afferrai al suo posto un’enorme sega per ossa e la rivolsi verso l’alligatore sdraiato sul tavolo, ma non sentii nessun godimento, dolore piuttosto, e mi accorsi che mi stavo tagliando via le braccia. I polsi mi bruciavano e si divincolavano, eppure non riuscivo a smettere di segare. Mi tagliai un’arteria e un orribile fiotto zampillò ovunque e mi accecò con una nebbia rossastra e io precipitai, senza fermarmi, nelle vuote tenebre del mio ego dove sagome orribili mi sospingevano urlanti finché non caddi nell’orribile pozzanghera rossa sul pavimento dove due lune spettrali mi fissarono truci dicendo: Apri gli occhi, sei sveglio…

E tutto tornò a fuoco e le due lune spettrali non erano altro che le spesse lenti incorniciate dalla grande montatura nera e attaccate alla faccia di un ometto con i baffi, snello e muscoloso, chino su di me con una siringa in mano.

«Il dottor Danco, suppongo?»

Non credevo di averlo pronunciato a voce alta, ma lui annuì e disse: «Già, mi chiamano così. E tu chi sei?» Il suo accento era vagamente forzato, come se dovesse riflettere prima di pronunciare ogni parola. C’era una traccia di cubano, ma non sembrava che lo spagnolo fosse la sua lingua d’origine. Per qualche motivo la voce mi mise di cattivo umore, come se fosse Dexter-Repellente. Ma nel profondo del mio cervello da lucertola un vecchio dinosauro sollevò il muso e rispose con un ruggito, sicché non mi mostrai umiliato di fronte a lui come stavo per fare. Tentai di scuotere la testa, ma non so perché non ci riuscii.

«Non provare a muoverti», mi avvertì. «Non ce la farai. Comunque stai tranquillo, riuscirai a vedere tutto quello che faccio al tuo amico sul tavolo. E presto toccherà a te. E allora potrai vederti nello specchio.» Batté le palpebre e il tono diventò frivolo. «Straordinaria invenzione, lo specchio. Lo sapevi che se da fuori casa qualcuno lo guarda, tu che stai dentro lo vedi riflesso?»

Sembrava un maestro elementare che spiegava uno scherzo a uno scolaro a cui era affezionato, ma che era troppo stupido per capirlo. E io lo ero talmente da non riuscire a dare un senso alle sue parole, perché mi ero mosso senza pensare ad altro se non: Wow, interessante. Mi ero lasciato trascinare dai miei impulsi amplificati dalla luna e dalla mia curiosità e il dottore mi aveva sorpreso mentre lo spiavo. Tuttavia stava gongolando e la cosa mi infastidì, così mi sentii costretto a dire qualcosa, anche di stupido.

«Certo, lo sapevo», feci. «E tu lo sai che questa casa ha anche un ingresso principale? Stavolta senza pavoni di guardia.»

Lui batté di nuovo le palpebre. «Dovrei spaventarmi?» domandò.

«Be’, non si sa mai chi potrebbe entrare di colpo senza essere invitato.»

Il dottor Danco sollevò impercettibilmente l’angolo sinistro della bocca. «Se il tuo amico al tavolo operatorio è uno di loro», considerò, «posso stare tranquillo, non trovi?» Dovevo ammettere che aveva ragione. I giocatori della prima formazione non erano stati indimenticabili; che cosa aveva da temere dalla panchina? Se soltanto fossi stato un po’ meno intontito da non so quali droghe mi aveva somministrato, quasi certamente avrei detto qualcosa di più intelligente, ma, a essere sinceri, ero ancora avvolto da una specie di nube chimica.

«Spero che tu non voglia farmi credere che stanno arrivando i soccorsi, vero?» osservò.

Mi stavo chiedendo la stessa cosa, ma non mi sembrava molto astuto dirglielo. «Pensala come vuoi», risposi invece, sperando di essere sufficientemente sibillino da guadagnare tempo. Nel frattempo maledicevo la lentezza dei miei processi mentali, di solito fulminei.

«D’accordo, allora», replicò. «Penso che tu sia venuto qui da solo. Anche se sono curioso di sapere perché.»

«Volevo studiare la tua tecnica», spiegai.

«Oh, bene. Sono lieto di mostrartela… di prima mano.» Fece di nuovo balenare quel suo sorrisetto e aggiunse: «Poi passeremo ai piedi». Attese un momento, forse per vedere se ridevo a quell’ironico gioco di parole. Mi dispiacque davvero deluderlo, ma forse mi avrebbe divertito più tardi, se ne fossi uscito vivo.

Danco mi diede un buffetto sul braccio e si piegò verso di me. «Devi dirmi il tuo nome, lo sai. E niente scherzi.»

Me lo vidi chiamarmi per nome, mentre ero legato al tavolo con le cinghie e non fu un’immagine allegra.

«Mi dirai come ti chiami?» domandò.

«Pollicino», risposi.