Danco mi guardò, gli occhi dilatati dietro le spesse lenti. Poi allungò la mano verso la mia tasca dei pantaloni e tirò fuori il portafogli. Lo aprì e ne estrasse la mia patente. «Oh! Dunque sei tu Dexter. Congratulazioni per il tuo fidanzamento.» Lasciò cadere il portafogli accanto a me e mi diede un buffetto. «Guarda e impara, perché molto presto farò le stesse cose su di te.»
«Per te sarà un onore», replicai.
Danco si rabbuiò. «Dovresti avere più paura», osservò. «Perché sei così calmo?» Fece una smorfia di disapprovazione. «Interessante. La prossima volta aumenterò il dosaggio.» Poi si alzò e se ne andò.
Ero disteso in un angolo buio vicino a un secchio e a una scopa e lo vedevo affaccendarsi in cucina. Si fece una tazza di caffè cubano liofilizzato e ci versò dentro una valanga di zucchero. Poi si piazzò al centro della stanza e fissò il tavolo, pensieroso.
«’Nahma’, implorò la cosa sul tavolo che una volta era stata il sergente Doakes. «Nahana. Nahma.» Ovviamente gli era stata tagliata la lingua… chiara metafora rivolta a colui che Danco riteneva l’avesse denunciato.
«Sì, lo so», fece il dottore. «Ma non ne hai ancora indovinata una.» Mentre lo diceva sembrava quasi che sorridesse, anche se il suo volto non sembrava fatto per rivelare altri sentimenti al di là di un attento interesse. Ma bastava a scatenare in Doakes una crisi di urla e ripetuti tentativi di liberarsi dalle cinghie. Non funzionò granché e non sembrò preoccupare il dottor Danco, che si allontanò sorseggiando il suo caffè e canticchiando fuori tempo Tito Puente. Mentre Doakes si agitava, mi accorsi che, oltre alle mani e alla lingua, gli mancava anche il piede destro. Chutsky aveva detto che la gamba dal ginocchio in giù gli era stata tagliata tutta in una volta. Di sicuro il Dottore voleva che Doakes durasse un po’ di più. E quando sarebbe stato il mio turno… da dove avrebbe cominciato?
Pezzo dopo pezzo, la nebbia stava svanendo dal mio cervello. Mi domandai per quanto tempo fossi rimasto incosciente. Non mi parve un argomento di cui discutere col dottore.
Il dosaggio, aveva detto. Quando mi ero svegliato, aveva in mano una siringa e si era stupito che non fossi tanto spaventato… Certo. Che splendida idea, iniettare nei pazienti una specie di farmaco psicotropo che aumentasse la loro sensazione di terrore e impotenza. Desiderai sapere come si facesse. Perché non avevo una preparazione medica? Ma, naturalmente, era un po’ troppo tardi per preoccuparmene. E in ogni caso sembrava che il dosaggio fosse perfetto per Doakes.
«Bene, Albert», disse con simpatia il dottore al sergente, gustando il suo caffè, «vuoi provare a indovinare?»
«Nahana! Nah!»
«Non credo sia giusto», rispose l’altro. «O magari, se tu avessi la lingua, potrebbe darsi di sì. In ogni caso», continuò, piegandosi sul bordo del tavolo e facendo un segno su un pezzo di carta, come se stesse cancellando delle voci. «È una parola abbastanza lunga», suggerì. «Dieci lettere. D’altronde, devi accettare la buona e la cattiva sorte, non trovi?» Posò la matita e prese una sega e, mentre Doakes cercava di liberarsi dalle cinghie agitandosi come un pazzo, Danco gli amputò il piede sinistro, proprio sopra la caviglia. Fece il tutto in modo preciso e pulito, poi mise l’arto accanto alla testa di Doakes e allungò la mano verso i suoi attrezzi, da cui trasse un grande saldatore. Lo applicò alla nuova ferita e si levò una nube di vapore sfrigolante: stava cauterizzando il moncherino per limitare al minimo la fuoriuscita di sangue.
«Eccoti servito», disse.
Doakes emise un suono strozzato e svenne, mentre un odore di carne bruciata si diffondeva per la stanza. Se gli andava male, sarebbe rimasto incosciente ancora per poco.
Io, per fortuna, riguadagnavo coscienza un po’ alla volta. Mentre le droghe sparate dalla pistola a freccette del dottore mi gocciolavano fuori dal cervello, cominciò ad affiorare una specie di luce fangosa.
Ah, il ricordo! Non è una cosa meravigliosa? Anche nei momenti peggiori, i nostri ricordi sono lì per rallegrarci. Io, per esempio, ero disteso, in grado soltanto di assistere alle cose terribili che capitavano a Doakes e consapevole che presto sarebbe stato il mio turno. Eppure, mi restavano i ricordi.
Ora mi veniva in mente quello che aveva detto Chutsky quando l’avevo liberato. «Quando mi ha portato lì», aveva spiegato, «diceva ’Sette’ e ’Indovina’.» All’inizio mi era sembrato tutto piuttosto strano, mi ero domandato se Chutsky non se lo fosse immaginato sotto l’effetto delle droghe.
Ma avevo appena sentito il dottore dire le stesse cose a Doakes: «Vuoi provare a indovinare?» seguito da «Dieci lettere». E poi aveva fatto un segno sul pezzo di carta appiccicato al tavolo.
C’era stato un pezzo di carta attaccato al tavolo di ogni vittima che avevamo ritrovato, ogni volta con sopra una parola dalle lettere cancellate singolarmente. ONORE. LEALTÀ. In senso ironico, ovvio: Danco ricordava ai suoi compagni di un tempo le virtù che non avevano osservato consegnandolo ai cubani. Povero Burdett, l’uomo mandato da Washington che avevamo trovato nella casa in costruzione a Miami Shores. Danco non si era sforzato molto. Una parolina veloce di cinque lettere: RETRO. E le braccia, le gambe e la testa erano state rapidamente tagliate e staccate dal corpo. R-E-T-R-O. Braccio, gamba, gamba, braccio, testa.
Possibile? Sapevo che il mio Passeggero Oscuro era dotato di senso dell’umorismo, ma era un po’ più cupo di questo… che era giocoso, bizzarro, addirittura sciocco.
Un po’ come la targa con scritto SCEGLI LA VITA. E come tutto quello che caratterizzava il comportamento del dottore.
Sembrava troppo improbabile, eppure…
Mentre tagliava e affettava, il dottor Danco faceva un giochino. Forse era abituato a trastullarsi in quel modo durante i lunghi anni di reclusione nella prigione cubana sull’isola di Pines e magari gli era parsa la cosa migliore per mettere in atto la sua bizzarra vendetta. Perché senza dubbio sembrava che volesse giocarci ora… con Chutsky, Doakes e con gli altri. Era piuttosto assurdo, ma era l’unica ipotesi che avesse un senso.
Danco stava giocando all’Impiccato.
«Allora», disse, tornando ad accovacciarsi accanto a me. «Come sta il tuo amico, secondo te?»
«Penso che tu lo abbia mutilato», risposi.
Piegò la testa da un lato e gli spuntò fuori la lingua piccola e rinsecchita che si passò sulle labbra. Intanto mi guardava, gli occhi grandi e fissi dietro gli spessi occhiali. «Bravo», fece, e mi diede un’altra pacca sul braccio. «Secondo me non ti rendi conto che capiterà anche a te», osservò. «Forse un dieci ti farà cambiare idea.»
«C’è una E?» domandai, e lui si tirò indietro lentamente come se le mie calze avessero emanato qualche odore disgustoso.
«Mmh», borbottò, sempre con lo sguardo fisso, mentre una specie di sorriso gli balenò sull’orlo della bocca. «Sì, ce n’è una. Ma ovviamente hai indovinato senza che fosse il tuo turno, quindi…» Sollevò leggermente le spalle.
«Puoi sempre considerarlo uno sbaglio… per il sergente Doakes», suggerii, credo abbastanza gentilmente.
Il dottore annuì. «Lui non ti piace, lo vedo», disse e si rabbuiò un poco. «A maggior ragione, dovresti avere ancora più paura.»
«Paura di che?» chiesi. Era pura spacconeria, ovvio, ma quante volte capita di poter punzecchiare un vero cattivo? Mi parve di aver colpito il bersaglio.
Danco mi fissò a lungo, poi scosse lentamente la testa. «Be’, Dexter», dichiarò, «vedo che sei tagliato per questo lavoro.» E mi fece quel suo sorrisetto, quasi invisibile. «Tra le altre cose», aggiunse, e mentre parlava un’allegra nuvola nera gli comparve alle spalle e suonò come una sfida per il mio Passeggero Oscuro che si protese in avanti e ruggì.
Per un istante restammo così, uno di fronte all’altro, infine Danco batté le palpebre e si alzò. Tornò al tavolo dove Doakes dormiva tranquillo, mentre mi lasciavo cadere nel mio accogliente cantuccio chiedendomi quale magia avrebbe escogitato il Grande Dexterini per la mia fuga.