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IV

Il giurato numero sette

«Sarà quel che Dio vorrà» mormorò Eli Martin al signor Queen in tribunale, il lunedì mattina, mentre aspettavano l’ingresso del giudice Newbold.

«Vale a dire?» domandò Ellery.

«Vale a dire» sospirò l’avvocato «che, a meno di un intervento miracoloso, il genero del mio amico è fritto. Mamma mia, che disastro di processo! Non mi è mai capitato niente di simile. Nessuno vuol dirmi niente: l’accusato, la Roberts, la famiglia; nemmeno quella scimmietta di Patricia ha voluto parlare con me…»

«Patty…» mormorò pensosamente Ellery.

«Pat vuole che la chiami a testimoniare, ed io non so nemmeno perché! Questa non è legge: è pura follia.»

«È uscita sabato sera con un’aria molto misteriosa» mormorò Ellery. «Ieri è uscita di nuovo, e tutte e due le volte è rientrata molto tardi. E aveva bevuto, anche.»

«Quasi dimenticavo che lei è un investigatore. Come l’ha scoperto, Queen?»

«L’ho baciata.»

Il giudice Martin trasalì.

«Baciata?»

«Ho i miei metodi» disse rigido il signor Queen, ma poi sorrise. «Però non è servito a nulla; non ha voluto dirmi assolutamente che cosa stava combinando…»

«E il profumo “Odalisca”» brontolò il vecchio giudice. «Se Patricia Wright crede che un profumino dolciastro possa impedire al giovane Bradford di fare quel che vuol fare…»

Il primo testimone che il giudice Martin chiamò a favore di Jim Haight fu Hermione Wright. Hermy salì con regale dignità sullo sgabello dei testimoni e disse «Giuro» con voce ferma, quasi tragica. Era stata una mossa astuta, da parte di Martin, chiamare la madre di Nora a testimoniare in favore dell’uomo che aveva cercato di uccidere la figlia! Il pubblico e i giurati rimasero molto impressionati dalla ferma dignità con cui Hermy affrontò i loro sguardi. Era una donna veramente coraggiosa.

Con grande abilità, il vecchio avvocato portò Hermione a parlare della gaiezza della serata, dell’infantile gioia di Jim e di Nora quando avevano ballato insieme e incidentalmente le fece anche dire quanto aveva bevuto quella sera Frank Lloyd, il testimone principale di Bradford. Risultò chiara in contrario la sobrietà del signor Ellery Queen, il quale aveva bevuto un solo liquore prima del tragico brindisi al millenovecentoquarantuno.

Il giudice Martin indusse poi Hermy a parlare della conversazione avuta col genero, poco dopo il ritorno degli sposi dalla luna di miele. Jim le aveva confidato che Nora sospettava di dover avere un bambino. La sposa desiderava tenere la cosa segreta finché non ne fosse sicura, ma Jim aveva dichiarato di essere troppo felice per poter stare zitto.

Con una vaga emozione sul volto, Carter Bradford rinunziò al contro-interrogatorio. Vi fu un tentativo di applauso quando Hermy scese dal banco dei testimoni.

Il giudice Martin chiamò poi una lunga serie di persone per testimoniare la mitezza di carattere di Jim Haight. Una serie lunga quasi come il muso del giudice Newbold. E quando John si presentò a sua volta sulla pedana e dichiarò che Jim era un buon ragazzo, un figliolo d’oro, e che tutta la famiglia Wright giurava per lui, nel pubblico vi fu un’ondata di simpatia per i Wright che attutì un po’ l’animosità popolare verso l’imputato.

Durante la sfilata di questi testimoni, Carter Bradford mantenne un atteggiamento distaccato.

Poi il giudice Martin chiamò Lorenzo Grenville. Era un o’metto con gli occhi acquosi e il volto raggrinzito. Si definì un esperto calligrafico.

Dichiarò di essere stato presente in aula fin dall’inizio del processo e di aver sentito la testimonianza degli esperti dell’accusa riguardo l’autenticità della calligrafia delle tre lettere presumibilmente scritte dall’imputato. Disse inoltre di aver avuto l’opportunità di esaminare le suddette lettere, oltre a campioni della grafia di Jim Haight, e che secondo la sua «esperta» opinione esistevano gravi motivi per dubitare della paternità di Jim riguardo le lettere incriminate.

«Quindi lei non ritiene che Jim Haight abbia scritto quelle lettere?»

«No.» (Il Pubblico Ministero lanciò un’occhiata obliqua in direzione della giuria.)

«E perché, signor Grenville?» domandò il giudice.

Il signor Grenville si buttò sui dettagli. E poiché arrivò a delle conclusioni diametralmente opposte a quelle degli esperti citati dall’accusa, la giuria, con grande soddisfazione del giudice, era naturalmente confusa.

«Signor Grenville, ha qualche altra ragione per ritenere che quelle lettere non siano state scritte dall’imputato?»

Il signor Grenville spiegò: «Il fraseggiare è ampolloso, e non corrisponde al solito stile che l’imputato usa nelle lettere.»

«Concludendo, signor Grenville, qual’è la sua opinione definitiva?»

«Secondo me, si tratta di falsi.»

Il signor Queen si sarebbe sentito rassicurato se non avesse saputo che un altro imputato, in un altro processo aveva firmato un assegno e il signor Grenville aveva dichiarato che la firma era falsa. Ellery non aveva nessun dubbio sulle tre lettere. Erano state scritte da Jim Haight. Si domandò come avrebbe reagito il giudice Martin e lo scoprì subito.

«Secondo lei» disse il giudice «è facile o difficile falsificare la grafia del signor Haight?»

«Molto facile.»

«E lei sarebbe in grado di farlo?»

«Certamente.»

«Potrebbe farlo qui, subito?»

«Be’, dovrei studiarci un po’… diciamo un paio di minuti.» Bradford balzò in piedi e seguì un violento diverbio col giudice Newbold. Infine la corte accettò la dimostrazione e al perito furono consegnate carta, penna, inchiostro e una copia fotostatica di un campione di calligrafia di Jim.

Lorenzo Grenville studiò la fotocopia esattamente per due minuti.

Poi prese la penna, la intinse nell’inchiostro e cominciò a scrivere.

«Riuscirei meglio» disse «se avessi la mia penna.»

Poi il giudice Martin osservò ciò che il suo teste aveva scritto, e con un sorriso passò il foglio alla giuria, assieme alla fotocopia. Dall’espressione di stupore che si dipinse sul volto dei giurati, Ellery capì che il colpo era riuscito.

Vic Carlatti alla sbarra. Si, il proprietario del locale più malfamato della città.

D. «Signor Carlatti, lei conosce l’imputato, James Haight?»

R. «L’ho visto spesso in giro.»

D. «È mai venuto nel suo locale?»

R. «Si.»

D. «A bere?»

R. «Be’, un bicchiere o due, ogni tanto, non c’è nulla di male.»

D. «Ora, signor Carlatti, c’è stata una testimonianza secondo la quale pare che Jim Haight abbia ammesso con la moglie di aver perduto del denaro al gioco, nel suo locale. Ne sa qualcosa?»

R. «È una sporca menzogna.»

D. «Vuol dire che Jim Haight non ha mai giocato nel suo locale?»

R. «Mai.»

D. «L’imputato si è mai fatto prestare dei soldi da lei?»

R. «Mai.»

D. «L’imputato le deve del denaro?»

R. «Non un centesimo.»

D. «A quanto ne sa, l’imputato non ha mai perduto denaro nel suo locale? Al gioco o in qualche altro modo?»

R. «Gli unici soldi che l’imputato ha tirato fuori nel mio locale è stato per comprarsi da bere.»

«Signor Bradford, a lei!» disse il giudice Martin.

Contro-interrogatorio di Bradford:

D. «Carlatti, è contro la legge gestire una bisca?»