«È una cittadina simpatica…»
«Per chi è largo di vedute» commentò il giudice Martin, avanzando a braccetto della moglie.
Martin era un ometto allampanato, dai modi alquanto bruschi.
«Non badi a quello che dice mio marito!» esclamò Clarice. «Questa sera è amareggiato perché ha dovuto mettersi lo smoking. Hermione, tutto è perfetto.»
«Oh, non ho fatto niente di straordinario» mormorò la signora Wright, inorgoglita. «Si tratta di un pranzetto intimo, Clarice.»
In quel momento apparve sulla porta Henry Clay Jackson per annunciare che il pranzo era servito. Henry Clay era l’unico maggiordomo “finito” di Wrightsville e le signore della buona società, con una forma di comunismo sforzato, se ne dividevano i servigi. Secondo una consuetudine inviolabile, Henry Clay doveva essere chiamato soltanto nelle grandissime occasioni.
«I signori» disse Henry Clay Jackson «sono serviti.»
Nora Wright apparve all’improvviso, mentre a tavola si stava servendo il dolce. Per un attimo il silenzio regnò nella sala, poi Hermione disse con voce tremante:
«Oh, Nora cara!»
E tutti le fecero coro.
Ellery fu il primo ad alzarsi. Frank Lloyd fu l’ultimo. Era paonazzo in volto. Pat si affrettò ad intervenire per togliere l’imbarazzo generale.
«Bell’ora di scendere a pranzo, Nora!» esclamò allegramente. «Ludie aveva preparato un arrosto meraviglioso, ma l’abbiamo finito! Signor Smith, ecco mia sorella Nora.»
Nora gli porse una manina fresca e fragile come un ninnolo di porcellana e disse in tono incerto, come se si fosse disabituata a servirsi della propria voce:
«La mamma mi ha parlato molto di lei.»
«E naturalmente ora ne è delusa» fece Ellery sorridendo; poi andò a prenderle una poltrona.
«Salve, Nora» disse Frank Lloyd quando la ragazza lo salutò; poi tolse di mano a Ellery la poltrona, col gesto più naturale del mondo.
Nora arrossì e si sedette con le mani abbandonate in grembo, come se fosse esausta. Le sue labbra pallide erano atteggiate a sorriso. A quanto sembrava, si era vestita con molta cura, perché l’abito che portava era perfetto quanto la pettinatura e le unghie smaltate di fresco. Ellery ebbe la visione di quella giovane chiusa nella sua camera, intenta a curare minuziosamente, quanto macchinalmente, tutti i particolari ai quali senza dubbio non dava importanza… tanto minuziosamente da arrivare a pranzo con un’ora di ritardo.
E ora che aveva raggiunto la perfezione, ora che aveva compiuto il supremo sforzo di scendere, sembrava come svuotata, quasi che la fatica fosse stata eccessiva e si fosse accorta che dopo tutto non ne valeva la pena. Ascoltò le chiacchiere di Ellery con un sorriso di circostanza, pallida in volto, senza nemmeno sfiorare il dolce che le avevano servito, né il caffè, e mormorando di quando in quando un monosillabo. Non sembrava annoiata, ma soltanto stanca… stanca al punto di non provare alcuna sensazione.
Poi, improvvisamente com’era venuta, si alzò e disse:
«Scusatemi.»
La conversazione cessò di nuovo. Frank Lloyd scattò in piedi e le spostò la poltroncina. La divorava con gli occhi. Lei gli sorrise, sorrise agli altri e uscì. Mentre varcava l’arco del vestibolo, affrettò il passo, poi scomparve. La conversazione riprese.
Il signor Queen era intento a vagliare mentalmente i vari piccoli episodi della serata, mentre s’incamminava verso la propria casa, nella tiepida oscurità. Le foglie dei grandi olmi mormoravano, e nel cielo brillava una luna che pareva un immenso cammeo. Sentiva ancora nelle narici il profumo dei fiori di Hermione. Ma quando vide la vetturetta accostata al marciapiede davanti alla sua casa, buia e vuota, parve che la dolcezza della sera incantevole svanisse. Qualcosa stava per accadere. Una nube velò la luna e il signor Queen procedette ai margini del prato; l’erba attutiva il rumore dei suoi passi. Sotto il porticato del villino c’era un minuscolo punto luminoso che a tratti si moveva.
«È lei il signor Smith?» domandò una voce da contralto in un tono leggermente beffardo.
«Sì, sono io» rispose Ellery, salendo i gradini. «Le dispiace se accendo la luce del porticato? È così buio!»
«Faccia pure. Sono curiosa di vederla… come lei del resto è curioso di vedere me.»
Ellery accese la luce. La donna era un po’ rannicchiata sul muricciolo pendente, di fianco alla gradinata. Lo guardava tra il fumo della sigaretta. I pantaloni di camoscio color tortora le aderivano alle cosce, e un maglioncino di cachemire le modellava il busto. Ellery ebbe subito l’impressione di trovarsi di fronte a un essere giovane, ma troppo maturo, spiritualmente, amareggiato. La donna ebbe una risatina nervosa e gettò via il mozzicone della sigaretta.
«Ora può spegnere la luce, signor Smith. Sono poco presentabile, e poi la mia famiglia si troverebbe in serio imbarazzo se sapesse che sono nelle vicinanze.»
Ellery obbedì.
«Dunque lei è Lola Wright.»
Era quella che era fuggita per poi ritornare divorziata. La figlia che i Wright non nominavano mai.
«Vedo che è ben informato.» Lola ebbe un’altra risatina che finì in un piccolo singhiozzo. «Mi scusi, è il settimo singhiozzo per il settimo whisky. Sa, sono famosa anch’io. Delle ragazze Wright sono quella che beve.»
Ellery scoppiò a ridere.
«Ho già raccolto qualche pettegolezzo.»
«Anch’io ho raccolto dei pettegolezzi sul suo conto e la credevo antipatico, ma devo ricredermi. Qua la mano!»
Lola si alzò, barcollò annaspando e si aggrappò al collo di Ellery. Lui la sorresse per un braccio.
«Ehi, avrebbe dovuto fermarsi al sesto whisky.»
La giovane gli pose le mani sullo sparato della camicia da sera e lo respinse energicamente.
«Se mi crede ubriaca, si sbaglia!» esclamò con forza, e tornò a sedersi sul muricciolo. «Dunque, signor celebre scrittore, che cosa pensa di noi tutti? Ha trovato materiale per un libro?»
«Certo!»
«Ha scelto il posto ideale.» Lola Wright accese un’altra sigaretta; la fiammella del suo accendisigari tremolava. «Wrightsville, la tipica città di provincia… pettegola, maliziosa, intollerante. Qui si trovano più panni sporchi in un metro quadrato che non in tutta New York e Marsiglia.»
«Non esageriamo» obiettò il signor Queen. «Ho girato un po’ dappertutto e mi pare che sia una cittadina piacevole.»
«Piacevole! È meglio che stia zitta! Questo è un vivaio di malvagità.»
«Ma allora perché è ritornata?»
Il puntino rosso della sigaretta di Lola si agitò rapidamente.
«Non è affar suo. Le piace la mia famiglia?»
«Moltissimo. Lei assomiglia a sua sorella Patricia… ha anche lo stesso fascino.»
«Con la differenza che Patricia è giovane, mentre in me la fiamma si sta affievolendo. Senta, signor Smith: non so perché sia venuto a Wrightsville, ma se farà amicizia con i miei familiari, ne sentirà molte sul conto della piccola Lola. A me non importa nulla di ciò che Wrightsville pensa di me, ma per un forestiero… la cosa cambia. Mi è rimasto un residuo di vanità.»
«La sua famiglia non mi ha ancora parlato di lei.»
«No?» Lola rise di nuovo. «Questa sera mi sento in vena di confidenze. Le diranno che bevo. È vero. Ho imparato a bere da… lasciamo andare. Le diranno pure che frequento i ritrovi più malfamati della città e, quel ch’è peggio, li frequento sola. Pensi un po’! Mi giudicano troppo spregiudicata. In realtà, faccio quel che mi pare, e tutti gli avvoltoi della buona società mi dilaniano con i loro artigli.»
Fece una pausa.
«Vuole bere qualcosa?» domandò Ellery.
«Ancora no. Non biasimo mia madre. Ha le idee ristrette come le altre signore di Wrightsville. Si preoccupa soltanto della propria posizione sociale. Tuttavia, se mi comportassi secondo le sue regole, mi accoglierebbe di nuovo. Il coraggio non le manca, lo riconosco. Ma non sono disposta ad assoggettarmi. La mia vita mi appartiene, e non tollero limitazioni! Mi spiego?» Rise ancora. «Avanti, mi dica che ha capito!»