— Sì.
— Andrai su per la linea.
— Esatto.
— A Bisanzio.
— Bisanzio, sì.
— Non è un paese per i vecchi, quello! — gridò una voce da un angolo della stanza. I due giovani l’uno tra le braccia dell’altro, gli uccellini tra i rami…
— Bisanzio — mormorò esausto un danzatore sdraiandosi accanto ai miei piedi.
— Gli orafi illustri dell’imperatore! — gridò Shigemitsu. — Spirito! Gli orafi infrangono il diluvio! Fiamme che nulla accende e alimenta!
— L’imperial soldataglia è a letto sbronza — dissi io.
Emily, fremendo, mi morse un orecchio e disse: — A Bisanzio troverai ciò che più desideri.
— Sam mi ha detto la stessa cosa.
— E là la perderai. E soffrirai, e proverai rimpianto, e ti pentirai, e non sarai più quello di prima.
— Mi sembra una faccenda seria — dissi io.
— Guardati dall’amore a Bisanzio! — strillò la profetessa. — Guardatene!
Guardatene!
— … mordon le fauci, affondano gli artigli — cantilenò Shigemitsu. Promisi a Emily di essere prudente.
Ma la luce della profezia era scomparsa dai suoi occhi. Si raddrizzò a sedere, sbatte più volte le palpebre, sorrise incerta, e domandò: — Chi sei? — Le sue cosce erano strette con forza intorno alla mia mano sinistra.
— Sono l’ospite d’onore. Jud Elliott.
— Non ti conosco. Cosa fai?
— Il Corriere temporale. Lo farò. Domani parto per cominciare il servizio.
— Adesso mi sembra di ricordare. Io sono Emily.
— Sì, lo so. Lavori in un centro genetico.
— Qualcuno ha parlato di me!
— Non molto. Com’è il tuo lavoro?
— Faccio la separatrice — disse lei. — Separo i geni. Vedi: quando qualcuno è portatore del gene dei capelli rossi e lo vuole trasmettere ai figli ma il gene è connesso (diciamo) a quello dell’emofilia, io separo il gene indesiderato e lo elimino.
— Dev’essere un lavoro molto difficile — osservai.
— No, se uno sa il fatto suo. C’è un corso d’addestramento di sei mesi.
— Capisco.
— È un lavoro interessante. Vedendo come la gente vuole che risultino i figli, s’imparano molte cose sulla natura umana. Sai, non tutti desiderano includere delle migliorie. Certe volte riceviamo richieste sorprendenti.
— Immagino che tutto dipenda da quello che s’intende per migliorie — dissi.
— Ecco, ci sono certe norme. Noi presumiamo che sia meglio avere capelli folti e lucidi piuttosto che non averne. Meglio un uomo alto due metri che alto un metro soltanto. Meglio avere i denti regolari piuttosto che storti. Ma tu cosa diresti se arrivasse una donna e ti dicesse di modellarle un figlio con i testicoli che non discendono?
— E perché qualcuno dovrebbe volere un figlio simile?
— Perché non le va l’idea che il figlio se la spassi con le ragazze — disse Emily.
— E tu l’hai accontentata?
— La richiesta era di due punti interi al di sotto del limite nell’indice delle deviazioni genetiche. Tutte le richieste del genere dobbiamo sottoporle alla commissione della revisione genetica.
— E quelli l’approverebbero? — chiesi io.
— Oh, no, mai. Non autorizzano mutazioni controproducenti di quel tipo.
— Immagino che quella povera donna dovrà accontentarsi di un figlio con le balle, allora.
Emily sorrise. — Può rivolgersi ai genetisti clandestini, se ci tiene. Quelli sono disposti a fare di tutto. Non lo sai?
— Non proprio.
— Producono le mutazioni più eccentriche per gli ambienti d’avanguardia. I bambini con branchie e scaglie, i bambini con mani a venti dita, quelli con la pelle zebrata. I clandestini modificano qualunque gene: basta pagare. Costa un patrimonio.
Ma è la moda del futuro.
— Davvero?
— Stanno per entrare in voga le mutazioni cosmetiche — dichiarò Emily. — Non fraintendermi: il nostro centro non farebbe mai una cosa simile. Ma questa è l’ultima generazione uniforme nella specie umana. Varietà di genotipi e di fenotipi, ecco cosa ci aspetta! — Gli occhi le brillarono di una follia improvvisa, e mi resi conto che negli ultimi minuti doveva esserle esploso nelle vene un aleggiatore ad azione ritardata. Stringendosi a me, bisbigliò: — Cosa te ne pare della mia idea? Facciamo un bambino, subito, e tra qualche ora io lo rimodellerò al centro! Seguiremo la nuova tendenza!
— Mi dispiace — dissi io. — Ho preso la pillola, questo mese.
— Proviamo lo stesso — fece lei, e m’infilò nei pantaloni una mano avida.
XVIII
Arrivai a Istanbul in un buio pomeriggio d’estate e presi una navetta espresso per attraversare il Bosforo e recarmi al quartier generale del Servizio sulla costa asiatica.
La città non era molto cambiata, dopo la mia ultima visita di un anno prima. Non era una sorpresa. Istanbul non è cambiata molto dopo i tempi di Kemal Ataturk, centocinquant’anni fa. Gli stessi palazzoni grigi, lo stesso groviglio arcaico di strade senza nome, lo stesso strato di polvere e di sudiciume. E le stesse moschee celestiali che si librano sopra quella desolazione.
Io ammiro immensamente le moschee. Dimostrano che i turchi qualcosa sapevano fare. Ma per me Istanbul è un brutto scherzo che qualcuno ha dipinto sopra il troncone dilaniato della mia diletta Costantinopoli. I pezzetti della città bizantina che ancora rimangono avevano per me maggior fascino della moschea del sultano Ahmed, della Suleimaniye e della moschea di Beyazit messe insieme.
Il pensiero che presto avrei visto Costantinopoli come una città viva, senza tutte le escrescenze turche, quasi mi fece bagnare i pantaloni per la gioia.
Il Servizio temporale aveva messo bottega in un palazzo tozzo e pauroso del tardo ventesimo secolo, sul Bosforo, praticamente di fronte alla fortezza turca di Rumeli Hisari da cui il conquistatore Maometto partì nel 1453 per strangolare Bisanzio. Mi aspettavano: però dovetti trascorrere quindici minuti in un’anticamera, circondato da turisti indignati che protestavano per non so quale errore di programma. Un uomo, paonazzo in volto, continuava a gridare: — Dov’è il terminale del computer? Voglio che venga messo a verbale dal computer! — E una segretaria esausta, dall’aria angelica, continuava a ripetergli stancamente che tutto quello che diceva veniva registrato a verbale, fino all’ultimo barrito. Due baldanzosi giganti in divisa della Pattuglia temporale attraversarono con calma la calca, con la faccia torva e la mente rivolta senza dubbio a una missione da compiere. Quasi mi pareva di sentirli pensare «Ahà! Ahà!». Una donna magra, dal volto appuntito, si precipitò loro incontro agitando un fascio di moduli verso le rispettive mandibole quadrate, e strillò: — Sette mesi fa ho confermato queste prenotazioni! È stato subito dopo Natale! E adesso mi dicono… — Gli agenti della Pattuglia temporale non si fermarono. Un robodistributore automatico entrò in sala d’aspetto e cominciò a vendere biglietti della lotteria. Poi arrivò un turco sparuto e con la barba lunga, dall’abito nero gualcito, che vendeva pasticcini al miele su un vassoio bisunto.
Ammirai la qualità di quella confusione. Dimostrava un autentico genio.
Tuttavia non mi dispiacque di essere tratto in salvo. Un tipo di levantino che avrebbe potuto essere il cugino del mio caro istruttore Najeeb Dajani comparve all’improvviso, si presentò come Spiros Protopopolos, e si affrettò a farmi passare attraverso una porta a diaframma che non avevo notato. Dovevi entrare dall’ingresso laterale — mi disse. — Chiedo scusa per il ritardo. Non ci eravamo accorti che fossi qui.
Era sulla trentina, grassottello, lucido, con gli occhiali da sole e una quantità di denti candidi. Mentre salivamo verso il circolo Corrieri, lui disse: — Non hai mai lavorato prima d’ora come Corriere, sì?