Выбрать главу

Mi alzai e mi aggirai incespicando nella stanzetta che mi avevano assegnato. Ero nervoso e teso. Ero senza droghe e non mi era permesso fumare: i Corrieri devono rinunciare gradualmente a queste cose, in anticipo, poiché ovviamente è un anacronismo illegale accendere una paglia in una strada del decimo secolo.

Capistrano mi aveva offerto il resto del suo brandy, ma non era una gran consolazione. Mi sentì sbattere contro i mobili, comunque, e venne a vedere cosa mi succedeva.

— Irrequieto? — domandò.

— Molto.

— Io lo sono sempre, prima di un balzo. Non ci si abitua mai.

Mi convinse a uscire con lui, per calmarci i nervi. Passammo sulla sponda europea e ci aggirammo a casaccio per le silenziose strade della città nuova, dal palazzo del Dolmabahce sulla spiaggia fino al vecchio Hilton, e poi giù, oltre Taksim, fino al ponte di Galata, e nell’Istanbul vera e propria. Camminammo, instancabili. Sembrava che fossimo gli unici ancora svegli in città. Passammo per il tortuoso labirinto di un mercato e uscimmo in una delle strade che portano ad Haghia Sophia, fermandoci per un po’ davanti alla vecchia chiesa maestosa. Mi impressi nel cervello tutte le caratteristiche, i minareti estranei, i contrafforti aggiunti in epoca tarda, e cercai di convincermi che la mattina dopo l’avrei vista nel suo vero aspetto, signora serena della città, non più costretta a dividere la grande piazza con l’aliena bellezza della Moschea Azzurra.

Continuammo la passeggiata, superando i resti dell’ippodromo, girando intorno al Topkapi, dirigendoci al mare e alle vecchie mura sul mare. L’alba ci trovò davanti alla fortezza di Yedikule, all’ombra del bastione bizantino in rovina. Eravamo semiaddormentati. Un ragazzo turco sui quindici anni ci abbordò educatamente e ci domandò prima in francese e poi in inglese se volevamo comprare qualcosa: monete antiche, sua sorella, hashish, denaro israeliano, gioielli d’oro, suo fratello, un tappeto.

Lo ringraziammo e dicemmo che non volevamo nulla. Imperterrito, il ragazzo chiamò sua sorella, che forse aveva quattordici anni ma ne dimostrava quattro o cinque di più. — Vergine — disse lui. — Vi piace? Bella figura, eh? Cosa siete, americani, inglesi, tedeschi? Qua, guardate! — A un aspro comando del fratello la ragazza si aprì la camicetta e mostrò due seni rotondi, sodi e attraenti. Appesa a uno spago, tra i seni, c’era una pesante moneta bizantina di bronzo, forse un follis. Mi chinai per vedere meglio. Il ragazzo, alitandomi aglio in faccia, si accorse che studiavo la moneta e non i seni, e cambiò argomento. — Vi piacciono le vecchie monete? Eh?

Noi ne abbiamo trovate molte sotto un muro, dentro una pentola. Aspettate qui, vado a prenderle, sì? — Corse via. Sua sorella si richiuse la camicetta con fare imbronciato. Capistrano e io ci allontanammo. La ragazza ci seguì, gridandoci di restare, ma si disinteressò di noi quando fummo lontani una ventina di metri. In un’ora facemmo ritorno al palazzo del Servizio temporale, con la navetta.

Dopo la colazione ci mettemmo in costume: lunga tunica serica, sandali romani, mantello leggero. Capistrano mi consegnò solennemente il timer. Ormai ero abituato a usarlo. Lo infilai, aderente alla pelle, e mi sentii invadere da un’abbagliante ondata di potere al pensiero che ero libero di trasportarmi in qualunque epoca e che non dovevo render conto a nessuno finché tenevo presente la conservazione dell’intangibilità del tempo attuale. Capistrano mi strizzò l’occhio.

— Su per la linea — disse.

— Su per la linea — dissi io.

Scendemmo dai nostri otto turisti.

XX

Il punto di partenza per la rotta di Bisanzio è quasi sempre lo stesso: la piazza davanti ad Haghia Sophia. Noi dieci, un po’ impacciati nelle nostre tuniche, vi fummo accompagnati in bus, e arrivammo verso le dieci del mattino. I turisti più convenzionali, che erano lì solo per vedere Istanbul, si aggiravano a frotte tra la grande cattedrale e la vicina Sultan Ahmed. Capistrano e io ci assicurammo che tutti avessero i timer e che si fossero cacciati bene in testa i regolamenti dei viaggi nel tempo.

Il nostro gruppo comprendeva un paio di graziosi giovani di Londra, due insegnanti tedesche, e due coppie di anziani coniugi americani. Avevano fatto tutti un corso ipnopedagogico di greco bizantino, e per un paio di mesi l’avrebbero parlato correntemente come tutte le rispettive lingue madri, ma Capistrano e io dovevamo ripetere continuamente agli americani e a una delle tedesche di ricordarsi di parlarlo.

Balzammo.

Provai il disorientamento momentaneo che si avverte sempre quando si va su per la linea. Poi mi orientai, e scoprii che avevo lasciato Istanbul e avevo raggiunto Costantinopoli.

Costantinopoli non mi deluse.

La sporcizia era sparita. I minareti erano spariti. Le moschee erano sparite. I turchi erano spariti.

L’aria era azzurra e dolce e limpida. Eravamo nella grande piazza, l’Augusteum, davanti ad Haghia Sophia. Alla mia destra, al posto degli squallidi palazzi grigi, vidi campi aperti. Davanti a me, dove avrebbe dovuto esserci la fantasia azzurra della moschea di Sultan Ahmed, vidi un agglomerato di bassi palazzi marmorei. Da un lato si levava il fianco dell’ippodromo. Figure dalle vesti colorate, che parevano uscite da mosaici bizantini, si aggiravano nella piazza spaziosa.

Mi girai per dare la prima occhiata ad Haghia Sophia senza i minareti.

Haghia Sophia non c’era.

Al suo posto vidi le rovine carbonizzate di una basilica rettangolare, sconosciuta. I muri perimetrali erano ancora in piedi, ma in equilibrio precario; il tetto non c’era.

Tre soldati dormicchiavano all’ombra della facciata. Mi sentii sperduto.

Capistrano disse con voce monotona: — Siamo risaliti di sedici secoli su per la linea. L’anno è il 408; siamo venuti ad assistere alla processione battesimale del figlio dell’imperatore Arcadio, che un giorno regnerà col nome di Teodosio II. Dietro di noi, sul sito della famosa cattedrale di Haghia Sophia, possiamo vedere le rovine della basilica originaria, costruita durante il regno dell’imperatore Costanzo, figlio di Costantino il Grande, e aperta al culto il 15 dicembre 360. L’edificio è stato incendiato il 20 giugno 404, durante una rivolta, e come vedete la ricostruzione non è ancora iniziata. La chiesa verrà ricostruita trent’anni giù per la linea dall’imperatore Teodosio II, e la vedrete alla nostra prossima sosta. Venite da questa parte.

Lo seguii come in sogno: mi sentivo un turista come le nostre otto pecorelle.

Faceva tutto Capistrano. Ci fornì notizie superficiali ma ampie sugli edifici marmorei davanti a noi, che costituivano il nucleo iniziale del Grande Palazzo. Non riuscivo a riconciliare ciò che vedevo con le piante che avevo imparato a memoria a Harvard; ma naturalmente la Costantinopoli che avevo studiato io era la metropoli più grande del periodo postgiustinianeo: ora invece stavo nella città ai suoi albori. Ci avviammo verso l’entroterra, allontanandoci dalla zona del palazzo, in un quartiere residenziale dove le case dei ricchi, con le facciate prive di finestre, si mescolavano alla rinfusa con i tuguri dai tetti di canne dove abitavano i poveri. Poi uscimmo sulla Mese, la grande strada processionale, fiancheggiata da botteghe e porticati: quel giorno, per festeggiare il battesimo del principe, era parata di drappi di seta bordati d’oro.

C’erano tutti i cittadini di Bisanzio, ammassati per la strada in attesa del grande corteo. Le botteghe di generi alimentari facevano affari d’oro: sentivamo l’odore del prosciutto alla griglia e dell’agnello al forno, e occhieggiavamo i chioschi carichi di formaggi, noci, frutti sconosciuti. Una delle ragazze tedesche disse che aveva fame: Capistrano rise e comprò agnello allo spiedo per tutti, pagando con lucide monete di rame che avrebbero entusiasmato un numismatico. Un uomo con un occhio solo ci vendette il vino di una grande anfora fresca, facendoci bere dal mestolo. Appena gli altri venditori delle vicinanze si accorsero che eravamo buoni clienti si affollarono a decine intorno a noi, offrendoci souvenir, dolci canditi, uova sode dall’aria un po’ vecchiotta, ciotole di noci salate, vassoi di vari organi animali, globi oculari e altri globi. Quello era il vero passato arcaico: quell’assortimento di merci in vendita e il lezzo di sudore e aglio che esalava dalla folla dei venditori ambulanti ci dicevano che eravamo molto lontani dal 2059.