— Stranieri? — domandò un uomo barbuto, che vendeva piccole lucerne d’argilla.
— Da dove venite? Cipro? Egitto?
— Spagna — disse Capistrano.
Il venditore di lampade ci scrutò sgomento, come se avessimo affermato di venire da Marte. — Spagna — ripeté. — Spagna! Meraviglioso! Fare un simile viaggio per vedere la nostra città… — Esaminò dettagliatamente il nostro gruppo, facendo un rapido inventario e fissando gli occhi sulla bionda e pettoruta Clotilde, la più voluttuosa delle due insegnanti tedesche. — La tua schiava è sassone? — mi domandò, tastando la mercanzia attraverso la veste sciolta di Crotilde. — Ah, molto bella! Sei un uomo di gusto! — Clotilde, con un gemito, si staccò dalla coscia le dita dell’uomo. Capistrano, imperterrito, lo abbrancò, spingendolo contro il muro di una bottega con tanta violenza che una decina di lampade d’argilla rotolarono sul pavimento e s’infransero. Il venditore ambulante sbatté le palpebre; ma Capistrano disse qualcosa sottovoce, gelidamente, e rivolse all’uomo uno sguardo terribile. — Non avevo cattive intenzioni protestò il venditore. Credevo che fosse una schiava! — Mormorò in fretta le sue scuse e si allontanò zoppicando. Clotilde tremava: era difficile capire se per l’indignazione o l’eccitazione. Lise, la sua compagna, sembrava un po’ invidiosa. Nessun venditore bizantino aveva mai palpato lei!
Capistrano sputò. — Potevano essere guai. Dobbiamo star sempre in guardia: un innocuo pizzicotto può portare rapidamente a complicazioni catastrofiche.
I venditori ambulanti si allontanarono da noi. Ci facemmo largo tra le prime file della folla, verso la strada. Mi parve che molte facce in quella calca non fossero bizantine, e mi chiesi se erano viaggiatori nel tempo. Verrà il momento, pensai, in cui noi venuti da giù per la linea affolleremo il passato fino a soffocarlo. Riempiremo noi stessi tutti i nostri ieri, e ne estrometteremo i nostri antenati.
— Eccoli! — gridarono mille voci.
Le trombe squillarono in chiavi diverse. In lontananza comparve un corteo di nobili, col volto glabro e i capelli corti, alla moda romana, poiché quella era ancora una città non meno romana che greca. Tutti erano vestiti di seta bianca (importata a caro prezzo dalla Cina, per mezzo delle carovane, mormorò Capistrano, dato che i bizantini non avevano ancora rubato il segreto della manifattura della seta); e il sole del tardo pomeriggio, che illuminava ad angolo acuto le belle tuniche, conferiva al corteo un tale splendore di bellezza che perfino Capistrano ne era commosso, sebbene avesse già visto quella scena. I grandi dignitari avanzarono lentamente, lentamente.
— Sembrano fiocchi di neve — sussurrò un uomo dietro di me. — Fiocchi di neve!
Quei grandi impiegarono quasi un’ora a sfilarci davanti. Venne il crepuscolo. Dopo i sacerdoti e i duchi di Bisanzio c’erano le truppe imperiali, con le candele accese che brillavano nell’imbrunire come un’infinità di stelle. Poi venivano altri sacerdoti che portavano medaglioni e icone; e poi un principe di sangue reale, il quale reggeva l’infante grassottello e gorgogliante che un giorno sarebbe stato il potente imperatore Teodosio II; e poi l’imperatore regnante in persona, Arcadio, abbigliato di porpora.
L’imperatore di Bisanzio! Lo ripetei a me stesso migliaia di volte. Io, Judson Daniel Elliott III, stavo a testa nuda sotto il cielo bizantino, là nel 408 d.C, mentre l’imperatore mi passava davanti con un fruscio di vesti! Anche se il monarca era solo il mediocre Arcadio, insignificante interpolazione tra i due Teodosii, io tremavo.
Vacillavo. La pavimentazione pareva ondeggiare sotto i miei piedi. — Si sente male?
— bisbigliò ansiosa Clotilde. Trattenni il respiro e supplicai l’universo di fermarsi.
Ero sopraffatto, e da Arcadio. E se fosse stato Giustiniano? Costantino? Alessio?
Sapete com’è. Finii col vedere anche quei grandi. Ma ormai avevo visto troppe cose su per la linea, e sebbene fossi impressionato non mi sentii sommerso dalla soggezione. La cosa che ricordo più chiaramente di Giustiniamo è che starnutì: ma quando penso ad Arcadio, sento squillare le trombe e vedo le stelle turbinare nel cielo.
XXI
Quella notte prendemmo alloggio in una locanda affacciata sul Corno d’Oro; oltre l’acqua, dove un giorno sarebbero sorti l’Hilton e gli uffici contabili, c’era soltanto un buio impenetrabile. La locanda era un robusto edificio di legno, con la sala da pranzo al pianterreno ed enormi stanze rozze, tipo dormitorio, al piano di sopra. Mi aspettavo che mi facessero dormire sul pavimento sopra bracciate di paglia: ma no, c’erano letti veri e propri, e materassi imbottiti di stracci. Gli impianti igienici erano fuori, dietro l’edificio. Non c’erano bagni: dovevamo andare ai bagni pubblici, se tenevamo alla pulizia. Ci misero tutti e dieci in una stanza, ma per fortuna nessuno se la prese.
Clotilde, quando si svestì, andò in giro indignata a mostrarci i lividi bluastri lasciati dalla stretta del venditore di lampade sulla sua morbida coscia bianca; la sua angolosa amica, Lise, assunse di nuovo un’espressione cupa, poiché non aveva niente da mostrare.
Quella notte dormimmo poco. Tanto per cominciare c’era troppo chiasso, poiché i festeggiamenti del battesimo imperiale proseguirono rumorosi in tutta la città fin quasi all’alba. Ma chi poteva dormire, del resto, sapendo che oltre la porta stava il mondo dell’inizio del quinto secolo?
La notte prima, sedici secoli più giù per la linea, Capistrano mi aveva generosamente aiutato a superare una crisi d’insonnia. Lo rifece. Mi alzai e mi avvicinai alla finestrella, guardando i falò di gioia accesi nella città, e quando Capistrano se ne accorse, mi venne vicino e disse: — Capisco. È difficile dormire, all’inizio.
— Sì.
— Devo procurati una donna?
— No.
— Facciamo quattro passi, allora?
— Possiamo abbandonarli? — domandai, guardando i nostri otto turisti.
— Non andremo lontano. Resteremo proprio qui davanti, a portata di mano nel caso che succeda qualcosa.
L’aria era pesante e mite. Brani di canzoni oscene salivano dalla zona delle taverne. Ci avviammo da quella parte: le taverne erano ancora aperte e affollate di soldati ubriachi. Le olivastre prostitute offrivano la loro mercanzia. Una ragazza, che poteva avere si e no sedici anni, portava una moneta legata a uno spago tra i seni nudi. Capistrano me la indicò, e ridemmo. — Magari la moneta è la stessa fece. — Ma i seni sono diversi? — Io scrollai le spalle. — Forse anche gli stessi seni — dissi, pensando alla ragazzetta non ancora nata che la notte prima ci era stata offerta presso la Yedikule. Capistrano acquistò due fiasche di resinoso vino greco, e ritornammo alla locanda: sedemmo tranquilli nella sala comune, e bevemmo in attesa che passasse l’oscurità.
Parlò quasi sempre lui. Come molti Corrieri temporali, aveva avuto una vita complessa, piena di giravolte, e distillò la sua autobiografia tra un sorso e l’altro di vino. Nobili antenati spagnoli, disse (non mi parlò della bisnonna turca se non mesi dopo, una volta che era completamente ubriaco); matrimonio in giovane età con una vergine di ottima famiglia; istruzione nelle migliori università europee. Poi l’inesplicabile declino: ambizioni perdute, patrimonio perduto, moglie perduta. — La mia vita — disse, — è andata in pezzi quando avevo ventisette anni. Avevo bisogno di una totale reintegrazione di personalità. Come vedi, il tentativo non è completamente riuscito. Parlò di una serie di matrimoni temporanei, di avventure più o meno criminali, di esperimenti con droghe allucinogene al cui confronto l’erba e gli aleggiatori erano cose innocenti. — Quando si era arruolato come Corriere temporale, era stata un’alternativa al suicidio. — Ho consultato un terminale chiedendo un bit a casaccio — disse. — Positivo, sarei diventato Corriere. Negativo, avrei preso il veleno. Il bit era positivo. Ed eccomi qui. — E finì il suo vino.