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Te la consiglio personalmente.

XXVI

Restammo un paio di giorni, per assistere alle fasi iniziali dei tumulti. I Giochi di Capodanno stavano per cominciare, e gli Azzurri e i Verdi diventavano sempre più irrequieti. La loro facinorosità sfiorava l’anarchia: per le strade, dopo l’imbrunire, nessuno era al sicuro dai pericoli. Preoccupato, Giustiniano ordinò che le fazioni mettessero un freno alle loro malefatte e fece arrestare vari caporioni. Sette furono condannati a morte: quattro per decapitazione perché erano stati sorpresi armati, tre per impiccagione perché considerati colpevoli di cospirazione.

Metaxas ci condusse a vedere lo spettacolo. Uno degli Azzurri sopravvisse alla prima impiccagione, perché la corda si ruppe sotto il suo peso. Le guardie imperiali ricominciarono da capo, ma neppure la seconda volta la forca riuscì a finirlo anche se la corda gli aveva lasciato grossi segni rossi sul collo. Perciò lo misero da parte, per il momento, e impiccarono un Verde: ma sbagliarono due volte anche con quello.

Stavano per sottoporre a una terza impiccagione le malconce vittime quando alcuni monaci, indignati, uscirono precipitosamente dal loro monastero, s’impadronirono dei condannati in mezzo alla confusione e li trasportarono in barca a remi attraverso il Corno d’Oro, conducendoli al sicuro in una chiesa. Metaxas, che aveva già visto altre volte la scena, sghignazzava come un matto. Mi sembrò che il suo volto mi sbirciasse da mille punti diversi, tra la folla che era convenuta per assistere all’esecuzione.

Poi cominciò la stagione delle corse, all’ippodromo, e noi vi andammo, ospiti della banda degli Azzurri amici di Metaxas. Eravamo in numerosa compagnia: centomila bizantini erano affollati sulle gradinate. Gli spalti con i sedili bianchi erano stipati: ma ci avevano tenuto il posto.

Cercai me stesso sulle gradinate, sapendo che ero seduto lì da qualche parte insieme a Capistrano e alla sua comitiva: ma nella calca non riuscii a vedermi. Però scorsi parecchi Metaxas.

La studentessa bionda lanciò un’esclamazione, quando arrivammo ai nostri posti.

— Guardate là! — disse. — I monumenti di Istanbul! — Al centro dell’arena c’era una fila di noti monumenti, che segnavano la separazione tra la corsia d’andata e quella di ritorno della pista. C’erano la colonna dei serpenti proveniente da Delfi, portata lì da Costantino, e il grande obelisco di Thutmose III, rubato in Egitto dal primo Teodosio. La bionda ricordava di averli visti a Istanbul, giù per la linea (dove stanno ancora adesso, sebbene l’ippodromo non esista più).

— Ma il terzo dov’è? — domandò.

Metaxas disse sottovoce: — L’altro obelisco non è stato ancora eretto. Meglio non parlarne.

Era il terzo giorno delle corse, il giorno fatale. Il malumore dominava in quell’arena, dove erano stati fatti e disfatti diversi imperatori. I due giorni precedenti, lo sapevo, c’erano state grida ostili quando Giustiniano era apparso nel palco imperiale: ma lui non aveva dato ascolto e aveva fatto proseguire le corse. Quel giorno, 13 gennaio, Costantinopoli sarebbe esplosa. I cronoturisti amano le catastrofi, e quella sarebbe stata sensazionale. Lo sapevo. L’avevo già vista.

Nell’arena, i funzionari portavano a termine i rituali preliminari. Le guardie imperiali, con gli stendardi al vento, sfilarono in modo grandioso. I capi degli Azzurri e dei Verdi che non erano in carcere si scambiarono gelidi saluti cerimoniali. Poi la folla si agitò, e Giustiniano entrò nel suo palco: era un uomo di media statura, un po’ grasso, con una florida faccia rotonda. Lo seguì l’imperatrice Teodora. Indossava un’aderente e trasparente veste di seta e si era imbellettata i capezzoli, che sfolgoravano attraverso la stoffa come fari.

Giustiniano salì i gradini del palco. Si levarono grida di «Liberateli! Lasciateli andare!». Serenamente, Giustiniano sollevò un lembo della veste purpurea e benedisse tre volte il pubblico con il segno della Croce: una volta in direzione delle tribune di fronte, poi a destra e quindi a sinistra. Il frastuono crebbe. Giustiniano lasciò cadere un fazzoletto bianco: il segnale d’inizio dei giochi. Teodora si stirò e sbadigliò, e si alzò la veste per studiarsi la linea delle cosce. Le porte delle scuderie si spalancarono. Uscirono i primi quattro carri.

Erano quadrighe, veicoli a quattro cavalli: il pubblico dimenticò la politica mentre i carri, a ruota a ruota, entravano in azione. Metaxas disse garbatamente: — Teodora è stata a letto con tutti gli aurighi. Chissà chi è il suo favorito. .— L’imperatrice aveva l’aria profondamente annoiata. Mi ero stupito di vederla lì, l’altra volta: credevo che le imperatrici non potessero entrare nell’ippodromo. In effetti era così: ma le regole del gioco, Teodora se le creava da sé.

Gli aunghi corsero precipitosamente lungo la spina (la fila di monumenti), svoltarono, e risalirono per la corsia opposta. Una corsa durava sette giri: sette uova di struzzo erano piazzate su un sostegno, e quando veniva completato un giro si toglieva un uovo. Assistemmo a due corse. Poi Metaxas disse: — Smistiamoci in avanti di un’ora, per vedere il momento culminante. — Solo Metaxas era capace di una trovata simile: regolammo i timer e balzammo in massa, con sovrano disprezzo per i regolamenti circa gli smistamenti in pubblico. Quando ricomparimmo nell’ippodromo, stava per avere inizio la sesta corsa.

— Ora cominciano i guai — annunciò tutto felice Metaxas.

La corsa si svolse regolarmente. Ma quando il vincitore si presentò per ricevere la corona, una voce tonante si levò da un gruppo di Azzurri: — Viva i Verdi e gli Azzurri!

Un attimo dopo, dai posti dei Verdi, si levò in risposta un altro grido: — Viva gli Azzurri e i Verdi!

— Le fazioni si coalizzano contro Giustiniano — disse tranquillamente Metaxas, in tono professorale. Il caos che stava sommergendo lo stadio lo lasciava imperterrito.

— Viva i Verdi e gli Azzurri!

— Viva gli Azzurri e i Verdi!

— Viva i Verdi e gli Azzurri!

— Vittoria!

— Vittoria!

— Vittoria!

E la parola «Vittoria!» divenne un poderoso grido che usciva da migliaia di gole.

— Nika! Nika! Vittoria!

Teodora rise. Giustiniano, accigliandosi, conferì con gli ufficiali della guardia imperiale. Verdi e Azzurri uscirono marciando dall’ippodromo, seguiti da una folla felice e urlante, animata dalla voglia di distruggere. Noi ci trattenemmo, mantenendo una prudente distanza: io scorsi altri gruppetti di spettatori altrettanto guardinghi, e mi resi conto che non erano bizantini.

Nelle strade brillavano le torce. Il carcere imperiale venne incendiato, i prigionieri furono liberati, i carcerieri bruciati vivi. La guardia di Giustiniano non osava intervenire e assisteva impassibile. I rivoltosi ammucchiarono fascine contro la porta del Grande Palazzo, di fronte all’ippodromo. Ben presto il palazzo fu in fiamme.

L’Haghia Sophia di Teodosio bruciava: sacerdoti barbuti, che brandivano icone preziose, apparvero sul tetto incendiato e precipitarono in quell’inferno. Prese fuoco anche il Senato. Fu una splendente orgia di distruzione. Ogni volta che si avvicinava un gruppo di ringhianti rivoltosi noi regolavamo i timer e ci smistavamo giù per la linea, avendo cura di non spostarci per più di dieci o quindici minuti a ogni balzo per non riapparire in mezzo a un incendio che non era stato ancora appiccato nell’istante in cui ci eravamo smistati.

— Nika! Nika!

Il cielo di Costantinopoli era annerito da un fumo oleoso, e le fiamme danzavano all’orizzonte. Metaxas, col volto appuntito sporco di fuliggine e gli occhi scintillanti di emozione, sembrava sempre sul punto di abbandonarci per unirsi ai distruttori.